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Silvia Castellani

Tra l'essere e il fare, c'è di mezzo il pensare

Posts Tagged ‘Patrizia De Vincentis’

Tutto di Patrizia De Vincentis

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gennaio 18th, 2011 Posted 16:56

Sembra che sia stato già tutto scritto, tutto detto, tutto scoperto, tutto dimenticato, tutto rivalutato, tutto abbandonato, tutto ritrovato, tutto fatto e di nuovo disfatto.

E io che diavolo ci starei a fare? Che debbo rappresentare? Certe volte è semplice correre su questa ruota per criceti che è la vita, certe volte mi coglie la disperazione nera dell’inutilità e mi fermo un po’. Non corro. Rallento. E guardo. Gli altri, la vita, il suono del mondo e poi risalgo in sella e cavalco i miei giorni.

Mi serve una cosa bella, un bacio dal mio amore, uno schiaffo di vento, un po’ di poesia ma non troppa, non troppa che altrimenti mi viene voglia di imprecare. Mi serve una risata, la mano sulla spalla della mia amica, un libro bello o brutto va bene lo stesso, che dopo ne verrà un altro ancora che il bello dei libri è che non finiranno mai.

Un bel quadro! Mi serve un bel quadro da osservare, una frase da ricordare, un film da rivedere, un dolce da preparare. Mi serve il sorriso di mio figlio, che mio figlio ha un sorriso che squaglia i ghiacciai e due fossette troppo belle per non essere baciate. Mi serve un urlo per scuotermi un po’.

Un bagno! Mi serve un bagno, di quelli lunghi, caldi, pieni di vapore e di profumi, di schiuma e bollicine. Mettere la testa sotto l’acqua un istante, che è il contrario di quello che fa lo struzzo, non lo faccio per paura ma perchè nell’acqua mi ritrovo. Mi serve un bel ricordo, uno di quelli teneri, solo miei. Mi serve un ricordo brutto, di quelli spaventosi, di quelli solo miei. Mi serve un po’ di pane e lo zucchero e il sale, un po’ di miele e farina e peperoncino, quello rosso. Mi serve il sole, le nuvole sfilacciate e la luna. Mi serve la strada da fare, quella che mi porta a casa.

Una strada in cui perdermi, che la trovo sempre. Mi serve ritornare dove sono stata e anche dove mi sono solo immaginata. Mi serve casa mia e la città e la campagna e più di tutto il mare. Il mare! Mi serve il mare, le onde, la risacca, l’odore del pesce che non mi piace, la sabbia fra le dita. Mi serve tanto amore, che sennò chi me lo fa fare. Mi serve darlo un po’ in giro questo amore che sennò, che ce l’ho a fare. Mi serve un po’ di seta e di velluto, cotone e lino e parecchia, ma parecchia morbida lana.

Una sciarpa! Mi serve una sciarpa, che mi avvolga e protegga. Una collana mi serve! Pietre tonde e squadrate, nere, lisce, colorate. Mi serve una lite, una discussione, parole grosse e parolacce, che mi piacciono, ci stanno bene.

Mi serve, mi serve tutto.

Quello già scritto,quello già detto. Quello scoperto e dimenticato, rivalutato e dimenticato. Quello abbandonato e ritrovato. Tutto quello che è stato già fatto per poterlo disfare.

E ricomiciare.

Testo di Patrizia De Vincentis

Foto di Fa”Bio” Baratto intitolata “La cosa più cara che ho”

Foto di Fa"Bio" Baratto

LA CRUDELTA’ DELLE PIUME E ALTRI AMMENICOLI di PATRIZIA DE VINCENTIS

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marzo 8th, 2010 Posted 13:53

Per la stagione “Così io mi esprimo” che vede protagonisti di questo blog alcuni contributi esterni di amanti della Parola e non solo, oggi è Patrizia De Vincentis a raccontarci uno sprazzo del suo mondo interiore attraverso il racconto “La crudeltà delle piume e altri ammenicoli”. Ho conosciuto Patrizia su Facebook e presto la conoscerò di persona. Non so molto di lei. Anzi, non so niente di quello che generalmente si intende come sapere delle persone. So quanto mi basta per dire che siamo amiche. So che è una gran mamma, so che è una combattiva, so che scrive benissimo. Ripeto: benissimo. So che lei, da qualche parte dentro di sè, se ne rende conto, ma so pure che spesso se ne dimentica. Oggi è la Festa delle Donne, Patrizia. E’ la nostra festa. Qui, insieme. Con le tue parole e il tuo esserci.

Quando, verso le sette del mattino, aprii la porta della sua stanza, vidi la vecchia befana, pendere dalla testiera del letto appesa per il collo al suo boa di piume di struzzo.

Se possibile, i suoi occhi erano ancor più sporgenti e mi fissavano raggelati per sempre, in un’espressione stupefatta. Brutta da viva, da morta era disgustosa. Intorno a lei, sparse sul letto, in caotico disordine, un arrembaggio di boccette colorate, profumi, ciprie e pozioni con le quali combatteva quotidianamente una guerra persa da sempre con una bellezza mai posseduta. E naturalmente, aggrovigliati, intorno a lei, decine dei suoi amatissimi boa di struzzo.

Restai qualche secondo a guardare la scena, con un’angosciante sensazione di irrealtà, poi mi riscossi ed andai a telefonare al suo medico. Non c’erano parenti che dovessero essere avvisati di questa sua strana dipartita. Il medico era la persona che mi aveva introdotto in casa della vecchiaccia, in qualità di badante. Mi conosceva da tempo, sapeva che ero una brava persona in un mare di guai finanziari e trovandomi questo impiego aveva inteso aiutarmi.

Avevo accettato questo lavoro come la manna dal cielo, non sapendo che avrei spalancato le porte dell’inferno: la signora Marilla, l’usuraia, aveva un’anima nera e una lucida malvagità, di quelle che si vedono rappresentate solo nei film noir a basso costo. Avevo provato con tutte le mie forze a sopportare la cattiveria di quella donna e, proprio quando credevo di non farcela più, la sua morte mi aveva liberato. Liberato da lei e dalla prigione che piano piano mi aveva costruito attorno.

Il dottore arrivò quasi contemporaneamente all’ ambulanza che lui stesso aveva chiamato.

Constatato il decesso dell’arpia, mi chiese se avessi per caso notato nei giorni precedenti qualche stranezza nei suoi comportamenti, che avrebbe potuto farci capire le sue intenzioni.

“ Dottore – gli risposi – lei la conosceva meglio di me. Nulla di quello che faceva sembrava normale.” Il dottore mi guardò un istante negli occhi e poi, distogliendo lo sguardo, parlando quasi a se stesso, lo sentii dire: “ Saranno stati i rimorsi…”.

Andarono via, lui, i portantini che avevano trasferito il cadavere su una lettiga, e i poliziotti intervenuti per un sopralluogo e le domande di rito.

Restata sola, vagai, distratta, nell’enorme casa vuota. Ero stanchissima. Avevo trascorso tutta la notte a frugare tra le carte della vecchia, cercando i nomi dei disgraziati a cui spremeva il sangue.

Sapevo dove nascondeva i soldi e, tolti quelli che mi avrebbero garantito una modesta ma serena esistenza, gli altri li avrei distribuiti tra le sue vittime, avendo cura di farlo in forma anonima.

Mi accasciai su una poltrona, ero davvero esausta. Con stupore osservai una piuma che lo sbuffo causato dal mio peso sul cuscino aveva fatto volare in aria. Una piccola piuma di struzzo.

Evidentemente era rimasta impigliata nei miei vestiti.

Mi venne fuori una risatina quasi allegra. Niente a che vedere con l’asmatica e laida risata della signora Marilla, l’usuraia. La notte scorsa, trovava di grande effetto comico il fatto di aver comprato tutti i miei debiti, cosa che mi avrebbe reso sua serva per tutta la vita. Mentre mi diceva queste cose, rideva, rideva…

Strangolarla con il suo boa di struzzo si rivelò molto più semplice di quanto mi sarei aspettata.

Racconto e fotografia di PATRIZIA DE VINCENTIS

"Piume di struzzo" - foto di Patrizia De Vincentis