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Silvia Castellani

Tra l'essere e il fare, c'è di mezzo il pensare

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ULTIME VOLONTA’ di ADRIANO PETRUCCI

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ottobre 2nd, 2010 Posted 13:22

Adriano Petrucci, acrilico e fusagine su tela, cm 80  110 cm, 2007

Quaglia si era rotto il femore.

Anzi, fratturato suona meglio.

In ogni caso, era ricoverato all’ospedale dell’Isola Tiberina. Sono gli anziani, di solito, ad avere questo problema con l’osso più lungo del corpo. Quando cadono, spesso e volentieri si rompono il femore. Anzi,  se lo fratturano, che suona meglio. Mia nonna, anziana signora a cui ancora non si è fratturato il femore, dice, forte della sua sapienza secolare, che: i vecchi cadono perché il femore si rompe e non il contrario. Certo è che leggenda vuole che i vecchi cadano e si rompano il femore e per me va bene cosi.

Tornando a Quaglia, era ricoverato per un femore fratturato, ma non aveva novant’anni. Siamo coetanei, anzi credo di essere più grande di lui di almeno un annetto suonato.

Alla nostra veneranda età di ventisette anni, sembra quasi impossibile fratturarsi l’osso che per antonomasia è l’osso simbolo della piaga dell’età, eppure il Quaglia era a letto, con un paio di chiodi infilati nelle carni vive. Sicuramente se l’era rotto ballando sul tavolo con una birra in mano, oppure era caduto dalla finestra.

Non era uno che tendeva al suicidio. Amava solo sedersi da ubriaco sul cornicione della sua finestra. Abitava al primo piano perciò il pericolo era minimo e al Quaglia ubriaco piaceva tanto provare quell’ebbrezza del vuoto, mentre vuotava l’ennesima bottiglia di birra. Ma tutta quella ebbrezza,  si tramutò, quella volta, in mancato equilibrio omicida. Commozione cerebrale e femore fratturato, guaribile in non so quanti giorni, anzi non mi interessava nemmeno. La commozione cerebrale non l’accusò nemmeno, anche perché non era un romantico. Il femore fratturato e inchiodato, poco incline alla commozione ma inspiegabilmente a favore delle piaghe da decubito, lo immobilizzò al suo letto d’ospedale.

Il mio dovere era quello di andarlo a trovare, sperando che non mi concedesse l’eterno bis della storia che lui amava raccontare più e più volte, anche durante la stessa serata. La storia parlava di quella volta che allo zoo o al giardino zoologico o meglio ancora, al bioparco, si trovò davanti ad un orango fuggito dalla sua gabbia. La storia raccontava della battaglia psicologica, della lotta di sguardi tra i due primate e di come, grazie al suo sguardo da animale feroce, riuscì a intimorire l’orango e a riportarlo nella sua gabbia a calci nel sedere.

“Mi scusi, si può salire a far visita ad una persona, oppure è finito l’orario?”

“Prego, salga pure” disse l’infermiera anziana, ma ancora giovanile.

Terzo piano.

Odio gli ospedali.

Spinsi con il gomito la porta del reparto di ortopedia. Non amo toccare le maniglie e le porte degli ospedali. Corridoio lunghissimo, con mura e soffitto bui tendenti al verde. Ogni tanto qualche sedia con anziani in pigiama faceva da arredamento al nudo corridoio.

Mentre andavo verso la stanza numero trentasette, lanciavo rapide occhiate dentro le stanze aperte e fui scosso dalla la tristezza.

“…Lei non può capire la paura che avevo in quel momento, davanti a quella scimmia. Pensai però a raccogliere tutta la mia ferocia e cercai di incanalarla nei miei bulbi oculari sfidando la scimmia in un duello arcaicamente istintivo…”. La vecchia storia dell’orango.

“Permesso?”

“Adriano! Vieni vieni, accomodati qui ai piedi del letto. Scusa, ma sto finendo di raccontare questa storia alle signore”

“Fai, fai…”.

Quelle povere malcapitate, sicuramente erano venute a far visita al vecchio che divideva la stanza con il Quaglia. Una doveva essere la vecchia moglie e l’altra la matura figlia, sicuramente zitella. Erano entrambe rapite dall’avventuroso racconto del mio amico. A lui piaceva tantissimo gesticolare mentre raccontava, ed aveva una mimica facciale di indubbio valore. Le voci poi le faceva benissimo, soprattutto quella dell’orango. Era arrivato verso la fine. Uno dei pezzi che preferivo perché, mentre raccontava di quando calciava quel povero animale nel deretano, rideva e gesticolava come non aveva mai gesticolato in tutta la storia e diceva “non ci provare più scimmia di merda! Non ci provare più che ti rompo il culo! Prendi! Prendi!”.

“Allora? Come stai?”

“Bene Adri”.

In pochi mi chiamano Adri, si contano sulla punta delle dita.

“Quando ti fanno uscire?”

“E chi lo sa?”

“Non sei annoiato a stare sempre a letto?”

“No, ma quale letto; io spesso prendo la sedia a rotelle e me ne vado a fare un giro…”

Non pensavo  si potesse girare con un femore rotto.

“Ma dove vai! Non ti muovere che c’hai tutti quei chiodi nella gamba”

“Coscia, amico mio. La gamba è la parte inferiore” Avevamo fatto anatomia insieme e a lui piaceva tantissimo correggermi quando parlavo di anatomia in modo poco tecnico.

“Senti, allungami un po’ la sedia a rotelle che me ne vado un attimo al bagno…”

Ero così curioso di vedere come si sarebbe catapultato su quella sediaccia che gliela porsi immediatamente. Agile come un orango, scimmiottò, scimpanzò, balzò dal letto alla seggiola senza troppo sforzo. Ne ero contento, soprattutto perché così non dovevo aiutarlo a fare pipì con il pappagallo.

Si sa che i pappagalli e le scimmie non legano.

“Non te ne andare, torno tra poco”.

Uscì dalla stanza per andare in bagno, invece di usare il gabinetto che aveva in comune con il vecchio che nel frattempo era rimasto solo.

Forse per pietà, mi misi a guardare i lividi sul dorso della mano dell’anziano dovuti all’ago della flebo. Il suo colorito era verde bottiglia. Sicuramente si trattava di un malato terminale finito in ortopedia chissà per quale oscuro motivo.

Sbarrò gli occhi e mi fissò.

“Che c’è?” chiesi innervosito.

“Vieni qua per favore, qua vicino”.

Mi alzai e andai verso di lui.

“Siediti qua”  e mi indicò con il dito la sedia che poco prima occupava sua moglie.

“Eccomi qua…” mi accomodai. Tossii forte, troppo forte per la sua debole scorza. Mi guardò ansimante.

“Sentimi bene…”

“Aspetta. Se hai intenzione di regalare a me le tue ultime parole caschi veramente male”

“Cosa?”

“Ti ripeto di non sperare che io vada alla ricerca di qualche tuo figlio illegittimo o a cercare un tesoro che avevi sepolto da giovane, oppure…”

Mi interruppe: “sei proprio uno stronzo, lo sai questo?” “Lo so. Noi giovani siamo sempre un po’ stronzi ed egoisti”.

Odio i giovani proprio per questo motivo, ma davanti a questo vecchio mi schierai con il nemico.

“Lascia perdere. Volevo chiederti solamente un bicchiere d’acqua” disse, indicandomi con un cenno del capo una bottiglia di plastica ed un bicchiere sempre di plastica sul comodino vicino al letto.

“Non potevi dirmelo prima che volevi dell’acqua?”.

Dare da bere agli assetati è doveroso. Dare da bere agli ammalati è ancora più doveroso. Dare da bere ad un vecchio sia assetato che ammalato, mi avrebbe fatto guadagnare molti punti agli occhi del Signore.

“Ce la fai a bere da solo?” gli porsi il bicchiere riempito per metà.

“Ma è mezzo vuoto questo bicchiere”

“Sei un pessimista quindi”

“Perché tu lo vedi mezzo pieno?”

“E’ per forza mezzo pieno, perché l’ho riempito solo per metà. Se fosse stato pieno e avessi bevuto un sorso d’acqua, allora sì che si sarebbe trattato di un bicchiere mezzo vuoto, ma d’altronde è normale che tu sia pessimista, data l’età e il luogo in cui ti ritrovi”

“Data la mia età? Ma sai per caso quanti anni ho io?” “Centocinquanta?”

“Settantanove”

“E allora?”

“E allora spera di arrivare tu alla mia età come ci sono arrivato io”

“A settantanove anni in un letto di ospedale? Spero di morire prima”.

Ci guardammo per qualche secondo, poi continuò:

“Me lo dai o no questo bicchiere d’acqua?”

“Ce la fai a bere da solo? O vuoi che ti faccio bere io?” “Saresti capace di affogarmi”

“Saresti invece tu, capace di strozzarti con questa lacrima di acqua”

“Insomma, non la voglio più quest’acqua. Mi hai fatto passare la sete”.

Odio gli anziani. Sembrano come i bambini, sempre pronti a creare dei problemi, sempre imbronciati, sempre scontenti. Gli anziani sono proprio come i bambini e tu non puoi che comportarti con loro da adulto. Salvo l’eccezione. Io odio comportarmi da adulto con i bambini e di conseguenza con gli anziani. Io sono l’eccezione e se il caro Quaglia non fosse tornato al più presto, avrei sculacciato quel vecchio bambino e l’avrei lasciato senza cena.

“Perché ti trovi qui?” provai a mediare, anche perché di tanto in tanto passavano davanti la porta alcuni infermieri di guardia e, se avessero scoperto che torturavo psicologicamente un povero vecchio, me la sarei passata brutta. “Che ti importa…”

Avevo forse toccato un tasto dolente. Se a un tizio in ospedale chiedi il perché del suo ricovero, penserà sempre al momento prima dell’incidente con languida malinconia. Un po’ come chiedere ad un carcerato il motivo della sua reclusione.

“Due mesi fa sono…”

“… e allora guardai quella scimmia di merda negli occhi. Capii subito che psicologicamente l’avevo ormai soggiogata. Non mi rimaneva che riconfinarla a calci in culo nella gabbia da dove era fuggita…”

Mi voltai. Il Quaglia, stanco di deambulare sulla sua vettura a trazione umana, si era fatto spingere da un’infermiera e aveva pensato di ricompensarla raccontandole la storia più appassionante e avventurosa che conosceva.

“Mi scusi signore”

L’infermiera si era rivolta a me, “Dovrebbe lasciare la stanza perché sta passando il dottore per le visite, poi sarà servito il pranzo”.

Mi stavano cacciando. Meglio, io odio gli ospedali. “Adri mi dispiace, ma sai che negli ospedali sono “rigidi”. Ci vediamo domani?”

“Sì Quaglia, tranquillo. Rimettiti, mi raccomando”. Salutai il mio amico e mi voltai verso il vecchio. Stava forse per rivelarmi la storia più triste che avessi mai sentito. Una storia di dolore e morte, ma era stato interrotto dal finale di una storia tra il mitologico e il trash.

“Buongiorno signori”

Il dottore fece la sua comparsa con indosso il camice immacolato e la cartelletta in mano.

“Buongiorno dottore, me ne vado subito”

Uscii dalla stanza.

“Allora, signor Quaglia, cosa mi racconta?”

Riuscii a sentire la domanda che avrebbe condannato il dottore ad ascoltare la storia famosa dell’orango. Chissà quante volte l’aveva ascoltata il povero compagno di stanza del mio amico.

Pian terreno.

Racconto e illustrazione di Adriano Petrucci

Influenza intestinale quando marzo sembra agosto di ADRIANO PETRUCCI

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febbraio 19th, 2010 Posted 17:00

Oggi questo blog si apre all’Altro nella persona di Adriano Petrucci, che inaugura una nuova stagione, che chiameremo “Così io mi esprimo” che vedrà protagonisti alcuni contributi esterni di amanti della Parola e non solo. Adriano è un ragazzo che ama scrivere, che racconta, anche tramite le proprie illustrazioni, delle storie. Ho conosciuto Adriano per caso, chiedendogli l’amicizia su Facebook. Mi incuriosiva l’illustrazione del suo profilo. E siamo diventati amici. E ci siamo raccontati un po’ di cose. Poi ho letto un suo racconto “Influenza intestinale quando marzo sembra agosto” che fa parte di un più ampio ciclo di racconti trash. Ne ho apprezzato l’originalità e il coraggio nell’affrontare temi non scontati. Oggi Adriano è qui con noi, con le sue parole, con la sua arte di illustrare un fervido mondo interiore. Sì Adriano, la risposta è sì, ci credo.

L’eleganza sta nel fatto che, nonostante avesse dalla sua un’età avanzata, non si privava dei piccoli piaceri della vita. Descrizione: alta poco più di un metro e mezzo, visibilmente provata dal passare delle stagioni, una manciata di rossi capelli sulla sommità del capo, degli indumenti che non lasciavano nulla all’immaginazione (nel senso che coprivano così bene che era meglio non immaginare cosa ci fosse sotto la veste…) e un classico tocco di trash nelle scarpe da lavoro a punta quadrata. Non avendo potuto condurre una vita soddisfacente e privata delle frivolezze adolescenziali, questa donna cominciò a “comportarsi allegramente” all’età di 65 anni. Emozionata ogni volta che aveva un appuntamento, si metteva davanti allo specchio nel suo bagno di 3 metri quadrati e, seduta sul lavandino, iniziava a truccarsi gli occhi. Il matitone nero lasciava frenate sulle palpebre grezze e rugose che sembrava di sentirle, quelle frenate, poco fuori di casa, all’incrocio di piazzale delle Babbione dove, attaccate ad un albero ci sono tante targhe e fiori marci, in memoria dei morti sfracellati per strada. Il suo colore naturale di capelli, il rosso, andava a nozze con il rossetto. Le piaceva tanto quel colore; apriva lo stick, faceva scivolare fuori il rossetto, ormai ridotto a moncherino lucido e appiccicaticcio, e se lo passava sulle labbra, un tempo carnose e floride, disegnando un passato sorriso sulla bocca ormai sformata dall’età. Quello specchio, in superficie opaco, sporco e segnato anch’esso dal tempo, rifletteva il coraggio della donna, la voglia di rimettersi in gioco nonostante fosse svantaggiata psicologicamente e fisicamente, la voglia di rivalsa su chissà cosa, il riscatto di una giovinezza mai goduta. Uscì dal bagno, ciabattando sulla moquette grigia appiccicata al pavimento. Un accappatoio infeltrito e inamidato l’avvolgeva in tutti i suoi pochi centimetri d’altezza. Sul letto, sdraiato come esanime, un vestito “bomba” scelto apposta per la serata. Nero, con margherite giganti sparse un po’ ovunque. Una scollatura audace era, secondo lei, l’arma segreta, quella che avrebbe colpito immediatamente; “…di sicuro, sì, ci resterà di stucco…” disse come una bambina emozionata la sera prima della festa del papà. Si levò l’accappatoio di dosso, sentì una sensazione mista a vergogna ed eccitazione là dove l’aria la fasciava, toccandola dove mai nessuno aveva osato. Il suo sguardo fu poi attratto dallo specchio vicino alla finestra…
…osservò il suo corpo.
I suoi seni floridi oramai divenute delle buste di carne vuote e grinzose, sventolavano come foglie morte facendo da cornice ad uno sterno ossuto e visibile sotto la grezza e vecchia pelle ; le gambe, fragili e tremolanti, finemente decorate da vene di ogni colore e grandezza, erano strette, per coprire il delta di Venere, imbacuccato nella folta pelliccia pubica. “ … ”
Cominciò ad infilarsi il lungo e provocatorio vestito nero a margherite giganti; riemergendo poi dalla scollatura, tirò un sospiro di sollievo notando che veramente era l’ora di imporsi con la propria fisicità. Chissà cosa l’attendeva fuori, non solamente fuori a cena, ma addirittura fuori la porta. Si sedette sul letto che cigolò impercettibilmente sotto il suo piccolo peso; accanto  a lei, l’accappatoio bagnato inumidiva la trapunta di piume d’oca facendo marcire, a lungo andare, la coperta. S’infilò delle scarpe all’apparenza troppo chic, aperte, con un tacco alto almeno 7 centimetri, rosse sangue e con la punta aperta; le dita fuoriuscivano timide dalle scarpe. Si levò.
Era infine pronta per la bellissima serata.
Percorse le poco illuminate scale del condominio dove abitava, vecchie case popolari dimenticate da Dio, stando molto attenta a non inciampare tra un gradino e l’altro; non nascondeva una certa voglia di giungere al pian terreno, aprire il pesante portone di ferro battuto ed osservare tutta inorgoglita il suo cavaliere in attesa della sua dama. Durante la discesa, passando dalla rampa di scale al pianerottolo, i tacchi facevano il loro porco rumore nel silenzio della tromba delle scale. Prima che riuscisse a percorrere l’ultima rampa, velocemente, come fosse stato appostato dietro l’uscio, in attesa da ore, fece capolino il signor Marannino:
“Ma come siamo belle questa sera, dove va ad una festa?!” chiese il vecchio uomo fuoriuscendo con scatto felino da dietro la porta. I suoi piccolissimi occhiali bifocali  scintillavano nella fredda luce delle scale. “Bé, vede signor Marannino, questa sera ho un appuntamento galante, con un uomo un po’ più giovane di me… ma ci tengo a precisare che si tratta solo di una cena tra amici!” si affrettò a concludere la donna. Sorrise, il vecchio uomo, tra le mani un vecchio giornale e con indosso una vecchia canottiera intima sbrindellata. “Bé, io allora andrei…” disse lei. “Ma certo, vada, vada, non faccia aspettare il suo cavaliere, vada, vada, poi casomai domani mattina mi racconta se tutto è andato bene. D’accordo? Si diverta” concluse il vecchio e, sorridendo ormai dallo spiraglio, prima che la porta si chiudesse, le sorrise. La donna aspettò che la porta si chiudesse e imboccò l’ultima rampa di scale.

Da dietro la porta, il signor Marannino sentì il sensuale rumore dei tacchi calpestare i freddi gradini del condominio, il veloce e zoppo camminare lungo l’ingresso,la serratura scattare e il botto potente del portone in ferro battuto che si richiudeva. Nessuno sapeva quanto il signor Marannino fosse invaghito della donna e che non passava un secondo della giornata senza pensare a lei. Era rimasto vedovo all’età di 54 anni ed ora, a quasi 67, non riusciva ancora a darsi pace, non voleva rimanere solo, in quella casa con la carta da parati ormai ingiallita dal tempo, l’odore incessante di cipolla e umido, le lampade così impolverate da attenuare la luce stessa, i divani oramai scomodi, deformati ed impolverati, la televisione muta ma sempre accesa, il letto vuoto e puntualmente rifatto. Quello che veramente desiderava il signor Marannino era un corpo di donna. Voleva possedere una donna.Nonostante la terza età, aveva ancora voglia di eccitarsi, per sentirsi vivo. Era stato più volte denunciato da donne di mezza età, accusato di molestie sessuali in luogo pubblico, al supermercato, al bar, addirittura nei musei. Era stato confinato agli arresti domiciliari, in modo da poter in ogni caso rimanere nella sua intimità e con le sue cose (cose che, tra l’altro, lui detestava). L’unica possibilità che era rimasta al signor Marannino per poter sentire ancora quell’ eccitamento, era mandare delle lettere a donne anziane e sole, spacciandosi per uno spasimante più giovane, temporeggiare un po’ e poi…dare un appuntamento in tarda serata promettendo una cenetta intima  e…
…non presentarsi.

Racconto e illustrazione di Adriano PetrucciAdriano Petrucci, modella in posa su poltrona,olio e acrilico su tela,cm 80 x 100 cm, 2008