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Per le strade di Parigi e più a nord
agosto 6th, 2010 Posted 15:39
Mi porterò dietro, nella mente, di questo viaggio a Parigi e più a nord, la bambina che alla stazione voleva il mio ombrello rosso, il vecchio marinaio che non si rassegnava a non esser più tale, nonostante il mondo scorresse veloce accanto a lui e i tempi si fossero evoluti a tal punto da non vederlo più. Mi porterò il suonatore di arpa nella chiesa, che vendeva le proprie canzoni ai turisti e suonava come fosse la cosa più seria del mondo. Mi porterò le due anziane sorelle o amanti, chi lo sa, vestite da ragazze alla moda, con le borse uguali a tracolla, camminare per le strade grandi; e i settanta euro spesi in cioccolata, il mini-barbecue a forma di mappamondo e le foto dove vengo male, malissimo. NONOSTANTE MI SFORZI DI ADATTARE LA MIA FACCIA A UN’IMMAGINE CHE DURI . Di questo andare mi porterò il fatto che a Parigi un croissant non lo trovi di certo appena uscita dall’albergo e magari devi camminare due chilometri prima di incontrarlo, così succede che ti rassegni e vai da Starbucks dove sei tentato di mangiare un donut, PERO’ ALLA FINE LASCI TUTTI QUEI COLORI ALLA VETRINA che lo sai che è meglio stiano lì, più che nel tuo stomaco. Mi porterò di tutto questo viaggio quel meraviglioso perdersi per le strade di Parigi sorvegliata a vista dalla torre Eiffel cercando di fotografarla sempre, di rubarla con te sotto o senza, amore, che tanto è uguale. Anche se non sei riuscita a salirci e a guardare giù, perché la fila era lunga lunghissima e avresti rischiato di perdere la stabilità mentale a seguirla. E le bolle di sapone fatte con i fili, allontanarsi su dal secchio, e gli artisti d’occasione fatti con lo stampo, come quell’arte più moderna fatta con distacco. E le frasi dette al vento, e fra i denti, perché nessuno le potesse ascoltare. Mi porterò nel cuore quel perdersi nell’oblio di un posto bello, dove vivere sembra difficile, dove tutto è sconosciuto e tu per prima a te stessa, e non importa quale sarà il prossimo imprevisto, perché sulla metropolitana per forza devi salirci, se vuoi perdere l’orientamento. Mi porterò la pancia gonfia, le tasche vuote e il fare finta di riuscire a farcela sempre, a camminare, nonostante tutto faccia credere il contrario, soprattutto le gambe, che non vogliono più seguirti. Mi porterò tutte le persone così diverse, di tante etnie, che ho visto così perfettamente parigine che a un certo punto mi sono detta: va a finire che in questa città non ci sono nemmeno i piccioni nelle piazze. E invece quelli ci sono sempre e sempre grassi, pronti a planare sulla briciola ribelle che abbandona il tuo panino. LA STATUA DELLA LIBERTÀ, anche quella mi porto dietro; era nel posto sbagliato e la signora seduta accanto mi raccontava di venire dall’America, MA NON NEW YORK, NO CALIFORNIA, I came from Kentucky. LÌ CI SONO MANY HORSES. I gargoyles no, non li ho visti e la mia stanza era al settimo piano affacciata sul cimitero di Montmartre con tutte quelle fresche lapidi in bella vista. Che vista da lassù! E quanta vita. La Dolce Vita ovunque e tanto di quell’oro da rimanere senza fiato. I mulini, non solo quello rosso in una via ormai tanto battuta da far sorridere anche i più scettici, anche quelli che una volta a Pigalle avrebbero passato guai seri. Scarpe messe a stendere come in tutte le città universitarie del mondo, un allucinato davanti a un organetto. Mi porterò del Belgio le casette di marzapane e la pioggia persistente ad agosto, l’Atomium e il giro del mondo che si è fermato al Nettuno, la reliquia di Bruges o Brucas come la chiama la tipa argentina, che non ho neanche capito cosa fosse, ma ci ho messo la mano sopra e so che mi guarirà da tutte le malattie. La Madonna col bambino di Michelangelo e bestemming Eupen fino a un castello rosso che continuavo a fotografare senza accorgermene. Mi porterò l’allontanamento da questo computer e da facebook e la sensazione che Dalì ci aveva visto giusto nella definizione de LA METHODE PARANOIAQUE CRITIQUE. Non ho visto il Louvre, non ho camminato per i Campi Elisi, il Sacro Cuore l’ho apprezzato poco e male per mancanza di tempo e la Senna l’ho notata da lontano come pure da lontano ho avvertito il respiro di Renoir. Perciò, Parigi, arrivederci a presto. Doris Lessing scriveva: “è terribile fare finta che sia di prima qualità ciò che è di seconda. Fare finta di non aver bisogno d’amore quando ce l’hai. O che ti piace il tuo lavoro, quando sai che sei capacissimo di fare ben altro”.
Tags: Bruges, canale, Dalì, donuts, Doris Lessing, Paris, pigalle, Senna, strade, torre Eiffel
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Siamo un gruppo, notizie dal mondo e un ufficio di collocamento di notte
luglio 28th, 2010 Posted 11:05
ORE 8 – SIAMO UN GRUPPO – E’ mattina presto. Il cieco si ferma. Mi è tanto vicino che mi chiedo se magari non mi ha vista e mi stia venendo addosso. Certo che non mi ha visto, cretina che non sono altro, è cieco. Ma mi sente. Sento che mi sente e infatti mi chiede se è già passato il suo autobus. Mi dice un numero e io rispondo: aspetta, ci do un’occhiata. Ecco, ho risposto la cosa più improbabile del mondo. Dire a un cieco ci do un’occhiata è di cattivo gusto, ma non l’ho fatto apposta, mi è venuta così, uguale a quella che avrei detto a chiunque altro, in risposta alla stessa richiesta. Davanti alla tabella degli orari, rilevo che l’autobus che vuole prendere arriverà tra qualche minuto. Tra qualche minuto, dico. E il cieco, quando mi volto, sta già leggendo un biglietto che si rigira per le mani al contrario. Sta leggendo al contrario. Lui è normale, vuole fare le cose normali. Vuole leggere??? Gli prendo istintivamente il biglietto dalle mani, non posso accettare che un cieco tenga un biglietto per le mani, al contrario, e faccia finta di leggerlo. Allora lui dice che deve andare in un posto preciso a ritirare un pacco. Vedi, dice, c’è scritto sul biglietto in alto e intanto indica il nulla in direzione del biglietto. Sa dove c’è scritto cosa, qualcuno deve averglielo detto, ma le cose di cui parla, a me non tornano. Io ci vedo scritto dell’altro su quel biglietto che insisto a rigirarmi per le mani. Sta arrivando il mio autobus e prendo la decisione: vieni con me, dico, sali che ti aiuto. Lui sale, io chiedo al conducente di aiutarci. Ormai siamo un gruppo. Il conducente lo fa scendere dopo un paio di fermate, gli spiega che deve prendere un altro autobus, non il numero otto, mi raccomando, perché dove devi andare tu, quello non ci arriva. Il biglietto gira, dritto, contrario, poco importa, ormai il cieco è sicuro di arrivare a destinazione. Saluta il vuoto, ma nella mia direzione. Non vede, eppure sente, il respiro, le correnti, i movimenti. Non porta occhiali e non è bello guardarlo in volto. Scendo anch’io e faccio una prova, dico al conducente: grazie di averci aiutati. Lui passa la prova, dice: quando volete. Siamo un gruppo e vengo colta da ispirazione mistica: mi viene in mente una frase di Gesu’: quando sarete più di due, io sarò con voi. E lì, infatti, c’era qualcosa che chiameremo Gesù, che chiameremo amore, che chiameremo vita. Lì c’era la vita. non l’ho vista, eppure l’ho sentita. Devo andare in vacanza. E’ proprio necessario…
ORE 10 – NOTIZIE DAL MONDO – A Berlino due amanti clandestini hanno fatto sesso sul davanzale e nella foga sono caduti giù dalla finestra. Inutile dire che li hanno scoperti. A New York, lo stesso giorno, un uomo rapinava una banca puntando un mazzo di fiori contro l’impiegato di modo che leggesse il bigliettino d’accompagnamento all’omaggio floreale che riportava scritto: dammi tutti i biglietti da 100 e da 50: non vale la pena fare l’eroe. E a Parigi usciva sul giornale la notizia che entro il 2011 nelle case arriverà l’acqua frizzante. Leggendo queste notizie dal mondo, molto più interessanti di quelle che passano al telegiornale, mi preparo a partire e mangio uno yogurt alla nocciola che altrimenti andrebbe a male…
ORE 11 – UN UFFICIO DI COLLOCAMENTO DI NOTTE – Questa notte l’ha sognato un’altra volta. La verità è che lei non voleva, ma quando se l’è trovato davanti così, semplicemente lui, che non vedeva da una vita, l’ha fatto entrare e gli ha detto : cosa fai tu qui. Lui ha chiesto lo stesso. Nel sogno erano all’ufficio di collocamento, di notte. Lei non sapeva cosa fare, aveva iniziato da poco a lavorare lì e lui aveva la maglietta a maniche corte, quella rossa, la sua preferita. Era estate. Allora lui l’ha presa per mano e l’ha portata in un bar. Devo andare, diceva lei, o forse lo pensava solo.
Continua quando torno…
Tags: autista, cieco, di notte, passante, siamo un gruppo, ufficio di collocamento
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Stare sul pezzo, come un pazzo, evitando il pizzo per non cadere nel pozzo intriso di puzzo
luglio 17th, 2010 Posted 15:17
Quando giri per le strade devi stare sveglio. Non nel senso di portafoglio, che devi guardare non te lo fottano, ma nel senso di stare sul pezzo. Che tra l’altro è espressione che detesto. Stare sul pezzo. Di ferro rovente? Pezzo di corpo altrui? Questione incalzante? Mah. Sul pezzo. Della serie: stare sul pezzo, come un pazzo, evitando il pizzo per non cadere in un pozzo intriso di puzzo. Una scenetta orripilante e un ritornello doveroso. Se non lo scrivevo, mi saliva l’irritazione del pezzo.
Si diceva che devi stare sveglio se giri per le strade, se viaggi sui mezzi pubblici, costantemente, come me, che prendo il treno e lo riprendo, ogni giorno. Prendo l’autobus e lo riprendo, ogni giorno. Nel mio caso non vale il detto “perdere il treno”, o non solo. Per me sono le persone che passano, che si siedono accanto, che mi obbligano a fare conversazione senza chiedermi se ne ho voglia. Sono loro le mie occasioni. Sono le persone che incontri che possono fare la differenza, in tutti gli ambiti della vita. Dunque niente treni, ma persone. Persone sui treni o sul pezzo, che in fin dei conti è un po’ uguale. Prenderle o perderle? Devi stare sveglio per capirlo.
LA FINTA MANAGER
Questa è una donna bellissima, curata, diresti che fa l’avvocato, che lavori in una importante azienda, che sia per certo un capo. E infatti parla di un biglietto, una scusa qualunque per rompere il ghiaccio e metterlo nel bicchiere: il posto accanto con me dentro e con un cervello mezzo vuoto. Che va riempito. La donna pronuncia come d’incanto la parola azienda. E, in effetti, una donna così non è pensabile per chi la guarda senza che pronunci nei primi cinque minuti di conversazione la parola “azienda” o, in alternativa, “studio”, oppure “management”. Allora si occupa di aziende sì, ma tergiversa, non dice cosa fa esattamente, dunque o è una roba grossa o è una gonfiatura e se è una gonfiatura, non è mai un’occasione. E cosa mi dà il diritto di rifiutare a priori la possibilità di crearmi nuove occasioni? Niente. Perciò ascolto. Ha un ristorantino, finalmente ce l’ha fatta a dirlo, un ristorantino in culo al mondo, niente di scic (lo so come si scrive, ma voglio scriverlo così), ma però (?) fa anche un altro lavoro che ha a che fare con la parola azienda. Io la ascolto perché voglio stare sveglia e lei mi squadra perché sono vestita da cameriera. Allora capisco. Forse anche lei ragiona come me e sta indagando se sono da prendere o da perdere. Chiede e io rispondo: “no, non sono io la cameriera”. Niente match. Non ci si prende. L’abito ha contribuito a mettere in atto l’inganno. L’abito ormai è dato di fatto, per quella questione che fa il monaco. Ma quanto può durare? Poco, se stai sul pezzo. E cioè: Faccio cose, vedo gente.. Sì, ma cosa fai esattamente? Come vivi? Come ti paghi le sigarette? Devo assolutamente imparare da quel programma di Frizzi, i soliti ignoti. Non capisco mai un tubo. Che indovinassi una identità. Con la differenza che lì lo fanno apposta a confondere il giocatore. Ed è, in un certo qual modo, più onesto. Per le strade, invece, è meno onesto. E allora devi stare proprio sveglio su quel pezzo a un passo dal pozzo, perché la tua occasione, magari, è travestita da vecchio professore. O da cubista. Ps. Devo ricordarmi di dire alla ventenne del piano di sotto che se continua a mangiare il tonno, non la faccio più salire in ascensore con me.
LA STRAFIGA STRANIERA
Non è più una libera scelta, è una costante imposta dal mio viaggio. E’ il treno per Ferrara, questo? È una donna a chiederlo, a chiedermelo. Sì, è il treno per Ferrara. Ma perché non alzi un attimo gli occhi che sul tabellone luminoso c’è scritta la destinazione finale? Non lo dico. Lei continua: ah, grazie, no perché il treno è piccolo.. No, perché, i treni per Ferrara dove l’hai letto che devono avere le dimensioni di un freccia rossa, bianca o verde? Sto sempre pensando, solo quello. Oggi abbiamo trovato la parola adatta: perdere. Vi perdete? Salutiamoci qui. Su questo treno immaginario e io al finestrino con un fazzolettino bianco penzolante, il volto contrito e l’occhietto un po’ commosso. Vi voglio bene, ma devo salutarvi. Non scrivetemi. È più giusto così.
Il treno per Ferrara, dicevamo, è un trenino. E anche oggi ho dato la mia risposta alla rincoglionita di turno. Mi siedo e aspetto che arrivi la persona. Perché arriva sempre. E infatti. Oggi però sono sfigata. La persona (da prendere o da perdere, ancora non si sa) è una strafiga. Ha più o meno la mia età, ma è alta il doppio e larga la metà. Accostando le nostre figure, una di fianco all’altra, sarebbe come vedere una giraffa e un cinghialotto. La sua voce è un po’ fastidiosa, non c’è che dire. Ha buttato là qualche frase scema per il desiderio di una risposta qualunque che magari possa aprire una conversazione. Della serie che uno esclama “che caldo!” e l’altro risponde “eh già, che caldo!” E poi si continua, del tipo: ma lei da dove viene, è stato a lavorare dove, ma fatti i cazzi tuoi…La giraffa è cubana, si è sposata qui in Italia con un italiano che è andato in vacanza a Cuba, l’ha conosciuta, se ne è innamorato e l’ha portata in Italia a scopo matrimonio. Ma dai! Che storia originale. Va bé che io è preferibile che stia zitta dato che il mio fidanzato l’ho conosciuto in discoteca con la scusa dell’accendino. Come da manuale delle banalità. Torniamo alla strafiga. Dice che bisogna avere una gran pazienza per vivere in Italia e che se non avesse una casa, un marito, un figlio e un lavoro che le piace pure, se ne sarebbe tornata a Cuba già da un bel po’ di tempo. Poi mi dice il suo nome e canta una canzone il cui titolo è un nome di donna, il suo!!! Sono attonita. A questa persona la voglio perdere in un baleno. Vorrei chiudere gli occhi, riaprirli e non vedermela più seduta davanti. È una lamentona, pure ingrata va’. E guai a chi pensa che sono gelosa.
QUELLA CHE SE OGNI TANTO NON SI PERDE, NON E’ CONTENTA
È una vocalist felice, di notte, è un’operaia infelice, di giorno.
Ma non ascolto più, oggi, su questa nave guardo passare il mondo e lo osservo, poi lo trattengo e poi lo lascio andare. Mentre vivo la mia leggenda, da ferma, in viaggio. Faccio finta di scendere e invece cambio solo scompartimento e mi risiedo in un quattro posti vuoto. Oggi mi interessa prendere me stessa. Mi sento che scappo da qualche parte dentro di me, senza motivo apparente e non serve mi chieda perché. È una stupida domanda, in fondo. Soprattutto da fare a un altro. Chiudo gli occhi e inizio a chiamarmi.
Tags: come un pazzo, evitando il pizzo, intriso di puzzo, non cadere nel pozzo, rosa amarae, stare sul pezzo, stare sveglio, sulla strada, verde mare
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Riprendo i sogni – Il colore si trova lì…
giugno 30th, 2010 Posted 19:52
Tags: colori e sogni, la torre magica
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Bisogna tornare al colore- terza foto
giugno 11th, 2010 Posted 20:12
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Un’altra foto
giugno 6th, 2010 Posted 16:50
Tags: al podere, altri tempi, bianco e nero, foto di campagna
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Omaggio a Fabio Montale e Jean-Claude Izzo di ANDREA URBANI
giugno 5th, 2010 Posted 08:36
“Il vento risalì ululando le ripide calli acciottolate. Portò con se spruzzi di mare e di nafta, cartacce, salsedine, urina di gatto e di uomo, fumi di bouillabaisse e schizzi di sangue che i pescatori avevano sparso eviscerando le loro prede…una porta si aprì cigolando e riversando all’esterno un clangore aritmico di calici e idiomi. La tromba di Baker sfidava la cacofonia mediterranea mentre l’Olympique segnava il raddoppio confuso tra le righe irregolari di un vecchio televisore sospeso tra calici, pinte, flutes e bottiglie di Bandol. Sentore di anice e aroma di caffè ricordarono a Fabio che Marsiglia era sempre li, ai suoi piedi, sensuale e violenta…e desiderò un pastis, come ogni giorno, come sempre faceva all’ora dell’aperitivo o dopo cena, come se fosse ancora vivo!”
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Cosa vuoi fare da grande? di DELFINA SOLINAS
maggio 23rd, 2010 Posted 13:08
Chi di voi non si è mai sentito porre questa domanda? Penso nessuno.
Alle scuole elementari è la prima domanda che ti fanno.
Quando vai con mamma e papà e trovare i parenti, o dal medico, o a un funerale o al parco o al ristorante se hai un’età compresa tra i tre e i dieci anni ti chiedono: “Cosa vuoi fare da grande?”. Sembra quasi che quando un adulto non sa cosa chiedere a un bambino usi questa domanda per fare conversazione.
I maschietti in genere vogliono fare gli astronauti, i cow-boys, i pirati. Alcuni i dottori.
Le femminucce vogliono fare le ballerine, le maestre (soprattutto se a fare la fatidica domanda è la maestra, perchè si sa, le bambine a sei anni sono un pò lecca-culo), le principesse. Alcune le dottoresse.
E poi ci sono le eccezioni. Io ero un’eccezione: io a sei anni, da grande, volevo fare la nuvola.
Già la nuvola. E il bello è che tutti rispondevano “aaah che bello” senza mai chiedermi “e che cosa farebbe, di grazia, la nuvola?”. Forse già quando avevo sei anni, gli adulti mi vedevano, a ragione, come una un pò spostata. Anzi son sicura che fosse così perchè mi ricordo benissimo che da piccola sono stata spedita, su consiglio della mia maestra delle elementari a farmi strizzare da una psicologa…ma questa è un’altra storia.
Nessuno mi ha mai chiesto nulla. Sono io, la me trentenne che chiede alla me di sei anni “che cazzo fa, di grazia, la nuvola???”.
E cerco di rispondermi.
La nuvola cambia di secondo in secondo, restando sempre sé stessa. La nuvola cambia forma e colore e consistenza. La nuvola viaggia, naviga per il cielo, si tuffa nel mare sotto forma di pioggia e torna su nel cielo quando ha voglia, sotto forma di vapore acqueo. La nuvola è lì e tutti la possono vedere ma nessuno la può toccare, nessuno la può prendere, nessuno la può avere. La nuvola è di tutti e di nessuno, la nuvola è libera.
Ecco io a sei anni ero così. A me veniva l’ansia se mi dovevo mettere “in fila per due”.
Io odiavo dover andare in vacanza coi miei. Ma ci andavo, per forza.
E a 16 anni, durante una di quelle vacanze forzate, ho capito che forse la nuvola non la potevo fare, e dovevo scgliere un altro mestiere.
I miei quell’anno avevano scelto una vacanza rilassante. Un paesino sperduto nel Gennargentu, in un ex convento, in mezzo alle montagne, dove il centro abitato più vicino era a 30 km, ed era Orgosolo.
Il giorno prima della partenza ho tentato inconsciamente il suicidio lanciandomi col motorino a tutta velocità per una curva pericolosa. Mi sono fatta molto male ma non tanto da far saltare questa vacanza. Speravo almeno di incontrare un ragazzino super figo con cui fare amicizia.
E alla fine siamo partiti. Gli unici ospiti di quell’ex convento eravamo io e la mia famiglia, gli amici dei miei genitori col loro figlio mio coetaneo e un gruppo di ragazzini disabili con relativi educatori. Un ragazzo down è diventato il mio compagno di giochi preferito e la sua educatrice è diventata il mio mito, il modello da seguire!
E’ stata una vacanza bellissima e divertentissima e quando sono rientrata in mezzo alla civiltà avevo le idee un pò più chiare su quello che avrei voluto fare da grande. O forse solo sulla risposta da dare a chi mi avrebbe chiesto “cosa vuoi fare da grande?”.
Perchè ancora adesso, io da grande voglio fare la nuvola.
Tags: bambina, cosa vuoi fare da grande?, maestra, nuvola, sogni
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Una foto
maggio 18th, 2010 Posted 23:58
Tags: artisti, fotografia, mulino rosso, Parigi, pigalle
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Post al (ta)volo
maggio 4th, 2010 Posted 19:49
Al bar della stazione ordino il mio solito: un toast. Ormai la signora me lo prepara e io mi sento in dovere di andare a mangiarlo quel maledetto toast. Altrimenti la signora potrebbe dispiacersene e io di conseguenza. Dunque a pranzo il solito toast. Oggi c’era una rivista sul bancone che proponeva un corso di felicità e, se non un corso, una serie di consigli per diventare felici. Ho pensato fosse ridicola quella rubrica, perché è ridicolo che qualcuno pensi di poter consigliare qualcun altro sull’essere felici. Non ho letto. Magari dentro ci avrei trovato quelle storie del tipo : “accontentati delle piccole cose” oppure “sorridi se vedi crescere un fiore”. Ma dai ?! Non ho letto. Ma ho sonno. E dormo in piedi nel vero senso della frase. E’ uno di quei giorni in cui piove, il cielo è coperto da un’ombra grigiastra e io, la scorsa notte, ho riposato poco. Ricordo la volta in cui accadde, che mi addormentai in piedi. Lo ricordo perfettamente perché pensai a quant’era veritiero il detto. Ero in Egitto e stavo scalando a piedi il Monte Sinai. Quanti anni sono passati ?Molti. Dissi ad un compagno di viaggio: “sto dormendo in piedi e ho paura di cadere.” Non so se alla fine caddi, forse sì, forse non lì, quel giorno, ma sono certa della correttezza di quel sentore, di quella paura. Caddi, come corpo morto cade. Poi mi rialzai e ripresi la scalata. In cima al monte io voglio arrivarci sempre. Consigli per non cadere:
Guarda la tua gamba. Se è corta come la mia, rinuncia a fare quel passo oppure fatti portare in spalla da chi si offre.
Guarda se ci sono precipizi evidenti. Se li scorgi, accertati di avere indosso un paracadute di emergenza. Se poi non si apre, vorrà dire che era destino che ti fracassassi.
Ascolta l’esperto, la tua guida, quella che ti hanno assegnato o che tu hai reclutato cammin facendo. Anche se ti sembra svalvolata, è comunque fonte di esperienza.
Prega. Non sempre, ma intensamente. Magari non verrai ascoltato, ma in cielo rimane traccia sicura dei pensieri del cuore.
Non sprecare le energie in azioni d’arroganza. Mostrare le proprie doti di scalatore serve all’orgoglio individuale, ma mai a garantirsi la salvezza.
Gioca con i più piccoli, mettendoti al loro livello. Questo è essere lungimiranti.
Mangia poco. Magari un toast.
Tags: consigli, felicità, motore di stirling, scalata, tavolo, toast, volo
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