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Silvia Castellani

Tra l'essere e il fare, c'è di mezzo il pensare

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Impressioni a caldo (ho 38 di febbre) sui concorrenti del Grande Fratello 11

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ottobre 19th, 2010 Posted 12:10

Una prima considerazione dal punto di vista astrologico: troppi acquari puri e troppi sagittari. Si attaccano. Ma io per caso mi intendo di segni zodiacali? Certo che no, ma chissenefrega. Io sento e in questo momento sento che manca una cuspide, ovvero un concorrente nato a cavallo, come la sottoscritta, cavallo pure per l’oroscopo cinese. E veniamo appunto all’oriente. Andrea Cocco potrebbe fare lo stilista, ha un nome perfetto in questo senso e un fascino sopra la media; a prescindere dal fatto che abbia viaggiato, penso sia uno che fa viaggiare la testa. Si vede lontano un miglio che è intelligente e non perché ha fatto il liceo classico che comunque, fidatevi, fa bene. Il gigolò mi ha lasciata interdetta. Evidentemente mi aspettavo un Richard Gere o giù di lì, una specie di tronista mancato, ma poi ho pensato improvvisandomi Fiorello quando imitava l’avvocato Messina nelle sue arringhe difensive: ma chi siamo noi per giudicare, per aspettarci un gigolò piuttosto che un altro? Cosa ne sappiamo noi di questo mondo e di come viene misurata la belta’ dei suoi protagonisti? Poi ci sono la barista, la cubista, la giornalista, il figlio del fu camorrista e, nella mischia, spero salti fuori l’ex seminarista. Insomma, una sfilza di isti da fare paura a cui si aggiunge il padre del nascituro che personalmente non ho ben compreso. Vuole entrare, poi però quando gli dicono che starà un po’ serrado in albergo con la sua Annapaola, dice che va bene così, un po’ come a dire: “ma sì, ma dai, anche se non mi fate entrare va bene lo stesso”. Ma allora, caro il mio violin(ista), te la suoni da solo la messa? Nel senso: sii più convinto, Santo Cielo, altrimenti non convinci nemmeno noi. Gira e rigira torno sempre sul luogo del delitto: dov’è l’ex seminarista? Voglio saperlo. Leggendo le schede di presentazione dei concorrenti sul sito del Grande Fratello, noto che odiano tutti l’ipocrisia, la falsità e l’indifferenza. Ci mancherebbe. Però adesso aspettiamo un paio di settimane, va bene? E poi vediamo chi la spara più grossa. E mi vengono in mente dei lunghi coltelli e allora “forza Cocco, cucinali per le feste!” In senso figurato, s’intende. E come avrete capito, io sono una che prende sempre parte, che parteggio. Io odio gli indifferenti, come Puffo Brontolone e Gramsci. Poi c’è la salentina, che mi ricorda la Romina Power dei primi anni ‘80. La sua macro-ossessione è la taranta. Chiunque incontra, se vuole diventare suo amico, deve fare un balletto pizzicato, altrimenti non ha speranza. Veniamo a David. Appena l’ho visto ho pensato fosse sui trampoli e facesse il giocoliere. Bretelle-dipendente non passa inosservato. Allegro e positivo (?), non ha mancato di sottolineare a più riprese come il formaggio facesse schifo e, ancora, che non è mica un gatto, lui, che può stare al buio. Io ce l’ho in mente un tipo di gatto che potrebbe descriverlo al meglio, ma è più saggio aspettare, magari si trasforma nella tartaruga Oogway di Kung Fu Panda e mi illumina con motti del tipo: “ti preoccupi troppo di ciò che era e di ciò che sarà. Ieri è storia, domani è un mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente”. Altro da quello che leggo nella sua scheda: “impara dal passato, vivi il presente e sogna il futuro”. Sulla redattrice del giornale locale (quella col cappello da pittrice, che la devi chiamare LaCri per forza e invece a me piacerebbe chiamarla Giuda e baciarla) e sulla giornalista di gossip (quella della “mutanda giusta” e che a lei nessuno gliela fa sotto al naso) non commento più di tanto. In fondo, cosa servirebbe negare, sono due nemiche nel senso che se entrassi nella casa, le nominerei fisse per togliermele dalle palle perché la vera scrittrice, nonché pensatrice cre-attiva, è una, non nessuna, ma nemmeno centomila. Figuriamoci tre. E adesso mi impongo di fermare le mani, altrimenti se continuo a muoverle sulla tastiera, faccio una strage delle due innocenti. Spendo due parole, esattamente due, sull’emiliano-romagnolo: anche no.

Immagine 3

Pensierino della sera. Di questa sera

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ottobre 18th, 2010 Posted 19:41

E’ il 18 ottobre 2010. Sono gelata congelata. Oggi ho preso freddo e ho preso pure un paio di aspirine. Ho la febbre, ma non la misuro. Vado avanti con la mia temperatura. Penso che tra un paio d’ore nemmeno inizia Grande Fratello 11 e lo guarderò attentamente per vedere chi c’è quest’anno dentro la casa, perché sono curiosa come una scimmia e perché in quella casa vorrei entrarci anch’io. Altrimenti non avrei fatto il provino on-line che tra l’altro sta riscuotendo un certo interesse. Ho fatto il provino perché ci credo, perché sono una pensatrice cre-attiva, una scrittrice, perché mi interessa scrivere sul serio,La pensatrice cre-attiva mettermi alla prova, sottopormi al giudizio delle persone e un reality è un banco di prova serio, è anche la realtà del giorno d’oggi. Non si può fare finta di niente, non si può pensare che il Grande Fratello, così come gli altri reality non giochino una parte importante nella comunicazione attuale. Scrivere un libro all’interno della casa sarebbe un atto rivoluzionario dal punto di vista culturale e io me la sento di affrontare una sfida del genere. Forse sono pazza. Forse è la febbre. Anche se non è sabato sera.

Se anche voi credete che quest’impresa sia rischiosa e valga la pena sostenerla, votatemi.

In fondo lo diceva anche Oscar Wilde che “un’idea che non è pericolosa è indegna di chiamarsi idea”.

Andate sul sito grandefratellocasting.it, cercatemi per nome e cognome e troverete il mio video provino e le modalità per votarmi.

ULTIME VOLONTA’ di ADRIANO PETRUCCI

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ottobre 2nd, 2010 Posted 13:22

Adriano Petrucci, acrilico e fusagine su tela, cm 80  110 cm, 2007

Quaglia si era rotto il femore.

Anzi, fratturato suona meglio.

In ogni caso, era ricoverato all’ospedale dell’Isola Tiberina. Sono gli anziani, di solito, ad avere questo problema con l’osso più lungo del corpo. Quando cadono, spesso e volentieri si rompono il femore. Anzi,  se lo fratturano, che suona meglio. Mia nonna, anziana signora a cui ancora non si è fratturato il femore, dice, forte della sua sapienza secolare, che: i vecchi cadono perché il femore si rompe e non il contrario. Certo è che leggenda vuole che i vecchi cadano e si rompano il femore e per me va bene cosi.

Tornando a Quaglia, era ricoverato per un femore fratturato, ma non aveva novant’anni. Siamo coetanei, anzi credo di essere più grande di lui di almeno un annetto suonato.

Alla nostra veneranda età di ventisette anni, sembra quasi impossibile fratturarsi l’osso che per antonomasia è l’osso simbolo della piaga dell’età, eppure il Quaglia era a letto, con un paio di chiodi infilati nelle carni vive. Sicuramente se l’era rotto ballando sul tavolo con una birra in mano, oppure era caduto dalla finestra.

Non era uno che tendeva al suicidio. Amava solo sedersi da ubriaco sul cornicione della sua finestra. Abitava al primo piano perciò il pericolo era minimo e al Quaglia ubriaco piaceva tanto provare quell’ebbrezza del vuoto, mentre vuotava l’ennesima bottiglia di birra. Ma tutta quella ebbrezza,  si tramutò, quella volta, in mancato equilibrio omicida. Commozione cerebrale e femore fratturato, guaribile in non so quanti giorni, anzi non mi interessava nemmeno. La commozione cerebrale non l’accusò nemmeno, anche perché non era un romantico. Il femore fratturato e inchiodato, poco incline alla commozione ma inspiegabilmente a favore delle piaghe da decubito, lo immobilizzò al suo letto d’ospedale.

Il mio dovere era quello di andarlo a trovare, sperando che non mi concedesse l’eterno bis della storia che lui amava raccontare più e più volte, anche durante la stessa serata. La storia parlava di quella volta che allo zoo o al giardino zoologico o meglio ancora, al bioparco, si trovò davanti ad un orango fuggito dalla sua gabbia. La storia raccontava della battaglia psicologica, della lotta di sguardi tra i due primate e di come, grazie al suo sguardo da animale feroce, riuscì a intimorire l’orango e a riportarlo nella sua gabbia a calci nel sedere.

“Mi scusi, si può salire a far visita ad una persona, oppure è finito l’orario?”

“Prego, salga pure” disse l’infermiera anziana, ma ancora giovanile.

Terzo piano.

Odio gli ospedali.

Spinsi con il gomito la porta del reparto di ortopedia. Non amo toccare le maniglie e le porte degli ospedali. Corridoio lunghissimo, con mura e soffitto bui tendenti al verde. Ogni tanto qualche sedia con anziani in pigiama faceva da arredamento al nudo corridoio.

Mentre andavo verso la stanza numero trentasette, lanciavo rapide occhiate dentro le stanze aperte e fui scosso dalla la tristezza.

“…Lei non può capire la paura che avevo in quel momento, davanti a quella scimmia. Pensai però a raccogliere tutta la mia ferocia e cercai di incanalarla nei miei bulbi oculari sfidando la scimmia in un duello arcaicamente istintivo…”. La vecchia storia dell’orango.

“Permesso?”

“Adriano! Vieni vieni, accomodati qui ai piedi del letto. Scusa, ma sto finendo di raccontare questa storia alle signore”

“Fai, fai…”.

Quelle povere malcapitate, sicuramente erano venute a far visita al vecchio che divideva la stanza con il Quaglia. Una doveva essere la vecchia moglie e l’altra la matura figlia, sicuramente zitella. Erano entrambe rapite dall’avventuroso racconto del mio amico. A lui piaceva tantissimo gesticolare mentre raccontava, ed aveva una mimica facciale di indubbio valore. Le voci poi le faceva benissimo, soprattutto quella dell’orango. Era arrivato verso la fine. Uno dei pezzi che preferivo perché, mentre raccontava di quando calciava quel povero animale nel deretano, rideva e gesticolava come non aveva mai gesticolato in tutta la storia e diceva “non ci provare più scimmia di merda! Non ci provare più che ti rompo il culo! Prendi! Prendi!”.

“Allora? Come stai?”

“Bene Adri”.

In pochi mi chiamano Adri, si contano sulla punta delle dita.

“Quando ti fanno uscire?”

“E chi lo sa?”

“Non sei annoiato a stare sempre a letto?”

“No, ma quale letto; io spesso prendo la sedia a rotelle e me ne vado a fare un giro…”

Non pensavo  si potesse girare con un femore rotto.

“Ma dove vai! Non ti muovere che c’hai tutti quei chiodi nella gamba”

“Coscia, amico mio. La gamba è la parte inferiore” Avevamo fatto anatomia insieme e a lui piaceva tantissimo correggermi quando parlavo di anatomia in modo poco tecnico.

“Senti, allungami un po’ la sedia a rotelle che me ne vado un attimo al bagno…”

Ero così curioso di vedere come si sarebbe catapultato su quella sediaccia che gliela porsi immediatamente. Agile come un orango, scimmiottò, scimpanzò, balzò dal letto alla seggiola senza troppo sforzo. Ne ero contento, soprattutto perché così non dovevo aiutarlo a fare pipì con il pappagallo.

Si sa che i pappagalli e le scimmie non legano.

“Non te ne andare, torno tra poco”.

Uscì dalla stanza per andare in bagno, invece di usare il gabinetto che aveva in comune con il vecchio che nel frattempo era rimasto solo.

Forse per pietà, mi misi a guardare i lividi sul dorso della mano dell’anziano dovuti all’ago della flebo. Il suo colorito era verde bottiglia. Sicuramente si trattava di un malato terminale finito in ortopedia chissà per quale oscuro motivo.

Sbarrò gli occhi e mi fissò.

“Che c’è?” chiesi innervosito.

“Vieni qua per favore, qua vicino”.

Mi alzai e andai verso di lui.

“Siediti qua”  e mi indicò con il dito la sedia che poco prima occupava sua moglie.

“Eccomi qua…” mi accomodai. Tossii forte, troppo forte per la sua debole scorza. Mi guardò ansimante.

“Sentimi bene…”

“Aspetta. Se hai intenzione di regalare a me le tue ultime parole caschi veramente male”

“Cosa?”

“Ti ripeto di non sperare che io vada alla ricerca di qualche tuo figlio illegittimo o a cercare un tesoro che avevi sepolto da giovane, oppure…”

Mi interruppe: “sei proprio uno stronzo, lo sai questo?” “Lo so. Noi giovani siamo sempre un po’ stronzi ed egoisti”.

Odio i giovani proprio per questo motivo, ma davanti a questo vecchio mi schierai con il nemico.

“Lascia perdere. Volevo chiederti solamente un bicchiere d’acqua” disse, indicandomi con un cenno del capo una bottiglia di plastica ed un bicchiere sempre di plastica sul comodino vicino al letto.

“Non potevi dirmelo prima che volevi dell’acqua?”.

Dare da bere agli assetati è doveroso. Dare da bere agli ammalati è ancora più doveroso. Dare da bere ad un vecchio sia assetato che ammalato, mi avrebbe fatto guadagnare molti punti agli occhi del Signore.

“Ce la fai a bere da solo?” gli porsi il bicchiere riempito per metà.

“Ma è mezzo vuoto questo bicchiere”

“Sei un pessimista quindi”

“Perché tu lo vedi mezzo pieno?”

“E’ per forza mezzo pieno, perché l’ho riempito solo per metà. Se fosse stato pieno e avessi bevuto un sorso d’acqua, allora sì che si sarebbe trattato di un bicchiere mezzo vuoto, ma d’altronde è normale che tu sia pessimista, data l’età e il luogo in cui ti ritrovi”

“Data la mia età? Ma sai per caso quanti anni ho io?” “Centocinquanta?”

“Settantanove”

“E allora?”

“E allora spera di arrivare tu alla mia età come ci sono arrivato io”

“A settantanove anni in un letto di ospedale? Spero di morire prima”.

Ci guardammo per qualche secondo, poi continuò:

“Me lo dai o no questo bicchiere d’acqua?”

“Ce la fai a bere da solo? O vuoi che ti faccio bere io?” “Saresti capace di affogarmi”

“Saresti invece tu, capace di strozzarti con questa lacrima di acqua”

“Insomma, non la voglio più quest’acqua. Mi hai fatto passare la sete”.

Odio gli anziani. Sembrano come i bambini, sempre pronti a creare dei problemi, sempre imbronciati, sempre scontenti. Gli anziani sono proprio come i bambini e tu non puoi che comportarti con loro da adulto. Salvo l’eccezione. Io odio comportarmi da adulto con i bambini e di conseguenza con gli anziani. Io sono l’eccezione e se il caro Quaglia non fosse tornato al più presto, avrei sculacciato quel vecchio bambino e l’avrei lasciato senza cena.

“Perché ti trovi qui?” provai a mediare, anche perché di tanto in tanto passavano davanti la porta alcuni infermieri di guardia e, se avessero scoperto che torturavo psicologicamente un povero vecchio, me la sarei passata brutta. “Che ti importa…”

Avevo forse toccato un tasto dolente. Se a un tizio in ospedale chiedi il perché del suo ricovero, penserà sempre al momento prima dell’incidente con languida malinconia. Un po’ come chiedere ad un carcerato il motivo della sua reclusione.

“Due mesi fa sono…”

“… e allora guardai quella scimmia di merda negli occhi. Capii subito che psicologicamente l’avevo ormai soggiogata. Non mi rimaneva che riconfinarla a calci in culo nella gabbia da dove era fuggita…”

Mi voltai. Il Quaglia, stanco di deambulare sulla sua vettura a trazione umana, si era fatto spingere da un’infermiera e aveva pensato di ricompensarla raccontandole la storia più appassionante e avventurosa che conosceva.

“Mi scusi signore”

L’infermiera si era rivolta a me, “Dovrebbe lasciare la stanza perché sta passando il dottore per le visite, poi sarà servito il pranzo”.

Mi stavano cacciando. Meglio, io odio gli ospedali. “Adri mi dispiace, ma sai che negli ospedali sono “rigidi”. Ci vediamo domani?”

“Sì Quaglia, tranquillo. Rimettiti, mi raccomando”. Salutai il mio amico e mi voltai verso il vecchio. Stava forse per rivelarmi la storia più triste che avessi mai sentito. Una storia di dolore e morte, ma era stato interrotto dal finale di una storia tra il mitologico e il trash.

“Buongiorno signori”

Il dottore fece la sua comparsa con indosso il camice immacolato e la cartelletta in mano.

“Buongiorno dottore, me ne vado subito”

Uscii dalla stanza.

“Allora, signor Quaglia, cosa mi racconta?”

Riuscii a sentire la domanda che avrebbe condannato il dottore ad ascoltare la storia famosa dell’orango. Chissà quante volte l’aveva ascoltata il povero compagno di stanza del mio amico.

Pian terreno.

Racconto e illustrazione di Adriano Petrucci

Eloisa ed Abelardo, rapitori delle stelle

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settembre 30th, 2010 Posted 20:20

Parigi, 1100. Eloisa e Pietro Abelardo, una storia struggente che val bene raccontare attraverso e soprattutto i loro incartamenti. “A quel tempo ero infatti tanto famoso e primeggiavo talmente per essere nel pieno della bellezza e della giovinezza che qualunque donna mi fossi degnato di amare non avevo da temere alcun rifiuto”. Lo scrive Abelardo in una lettera intrisa di quelle superbia e vanità che gli faranno forse meritare la terribile punizione subita poco più che quarantenne. Lui stesso dirà ad Eloisa:”considera quanto profonda è stata la provvidenziale pietà di Dio verso di noi; come misericordiosamente Egli ha trasformato il suo verdetto in mezzo di correzione: con quanta saggezza si è servito dei mali stessi e ha amorevolmente rinunciato alla severità per salvare, con una meritatissima piaga in una sola parte del mio corpo, due anime…”. Per la sottoscritta, decisamente eccessivo anche per un uomo di chiesa, ma magari non (per un uomo) di fede.

Cimitero di Père Lachaise, 1800. I due oggi vi riposano in pace dopo 700 anni di tribolazioni, attraverso la vita ma anche attraverso la morte. Seppelliti originariamente  insieme, furono infatti divisi nel 1600 da una badessa ossessionata dai loro lussuriosi fantasmi, poi riuniti nel 1700 da un’altra religiosa e, alla fine di quello stesso secolo, trasferiti nella chiesa di Nogent-sur-Seine e collocati in uno stesso sepolcro, pur separati “per decenza” da un divisorio di piombo. Nel 1800, eccoli finalmente a Père Lachaise. Non poteva mancare una romantica leggenda: si narra che quando Eliosa morì, nel 1164 a distanza di 22 anni dalla morte dell’amato, e volle (riuscendoci) essergli sepolta accanto, le braccia del cadavere di lui si aprirono in un abbraccio.

Dopo la morte ci fu questo, ma in vita fu forse peggio.

Pietro Abelardo conosce Eloisa a 39 anni e ne diviene maestro. La ragazza non ha ancora 17 anni e fama di adolescente particolarmente sapiente. In un’epoca dove le donne sono praticamente quasi tutte analfabete, lei sa leggere il latino, ha nozioni di greco, d’ebraico e conosce a memoria Ovidio. E le arti liberali: grammatica, retorica, geometria e astronomia… E un chissenefrega, non ce lo mettiamo? Scusate, ma gli elenchi delle materie mi irritano. Diciamo piuttosto che, come per Paolo e Francesca, galeotto fu il libro. E “sepius ad sinus quam ad libros reducebantur manus” (più al seno che ai libri correvano le mani). È sempre Abelardo che scrive, in un momento successivo al consumarsi della storia carnale. Lei, invece, dal monastero di Argenteuil, in preda ad assoluta dedizione e, lasciatemelo dire, a quell’ardore sfrenato che confonde:

“Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella… ti ho amato di un amore sconfinato… mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta,…”

Ma, all’epoca delle “lezioni d’amore” Abelardo, che arde letteralmente di passione per allieva che lo ricambia, per starle più vicino, chiede a Fulberto, zio della giovane che l’ha in custodia, di poter “andare a pensione” da lui. Figurarsi se il canonico non approva! Accetta, infatti, con entusiasmo, di avere sotto il suo tetto il maestro più insigne di Parigi. Fino a quando scopre la relazione e lo caccia di casa. Eloisa è incinta. Abelardo decide di rapirla e di portarla presso la sorella, lontana da Parigi, dove la giovane partorisce un maschio che verrà chiamato Astrolabio. Abelardo però vuole riparare al male inferto alla famiglia di lei e chiede a Fulberto di sposarla con la clausola che il matrimonio deve rimanere segreto, perché lui non può sposarsi, essendo, oltre che docente, anche un chierico. Ne andrebbe della sua reputazione e della sua carriera. Ottenuta la garanzia del mantenimento del segreto dai parenti della giovane, i due si sposano, nonostante Eloisa sia contraria e cerchi ripetutamente di dissuadere l’amato da tale decisione. La notizia in qualche modo si diffonde e, per cercare di evitare ogni tipo di ripercussione, Abelardo fa rinchiudere Eloisa in monastero.

E più scrivo, più mi angoscio.

Poi, in qualche altro modo, il sentimento di vendetta di Fulberto prevale e la situazione una notte impazzisce.

Si legge ne “I segreti di Parigi” di Corrado Augias: “mentre dormivo tranquillamente in una camera appartata della mia casa, con l’aiuto di un mio servo che avevano comprato col denaro, si vendicarono su di me in quel modo così crudele e ignominioso che riempì tutti di inaudito stupore: mi amputarono cioè la parte del corpo con cui avevo commesso il peccato”.

I due non si rivedranno più. Solo una volta, per un solo momento, poterono appena incrociare lo sguardo.

Scriverà così, Eloisa, un giorno di vent’anni dopo l’evirazione, in preda a fantasie interiori mai più placatasi:“si può parlare di vera penitenza dei peccati quando, per grande che sia la mortificazione del corpo, l’animo rimane fermo nella volontà di peccare e arde degli antichi desideri? … È difficilissimo svellere dall’animo il desiderio delle supreme voluttà.

Esiste a Parigi una coppia raffigurata quattro volte sul pilastro centrale della sala delle guardie nel palazzo della Conciergerie, che rappresenterebbe, secondo la tradizione, i due tragici amanti. Lei ha il capo velato, lui guarda nel vuoto ed entrambi impugnano ornamenti che fuoriescono dalla cornice e paiono fallici.

Ad ogni modo, è certo che i due rapirono le stelle.

Nostra Signora di Parigi


Lezione femminile – Fiutare l’aria e andarsene veloci

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settembre 28th, 2010 Posted 19:44

Sono appena rientrata a casa e anche oggi metto la parola fine a questa giornata che definire faticosa sarebbe un eufemismo. Sto pensando che nella vita tutto serve, soprattutto se sei donna, soprattutto se devi difenderti dai pericoli del mondo. Sto pensando che da ragazzina ho frequentato moltissimo le discoteche, anche quelle un po’ più “accese”, quelle dove non era raro che scoppiasse una rissa in pista, così, all’improvviso. Mentre tu stavi ballando, avevi circa dieci secondi, forse meno, per renderti conto che dovevi uscire da quella pista dove stavi ballando, altrimenti, tuo malgrado e senza c’entrare un cazzo, ci finivi in mezzo al casino colossale. Vedi poco fa, sull’autobus che ho preso alla stazione, stanca morta come sempre, come quando stavo a ballare delle ore, da ragazzina. Ma i riflessi, i riflessi non mi tradiscono più. Ormai. Mi sono seduta, in fondo all’autobus. C’erano tre posti, uno già occupato e gli altri due liberi. Ci siamo seduti, io e un uomo, apparentemente normale. E appena seduta, al centro tra i due uomini, ho rilevato che c’era qualcosa che non tornava, che non andava bene. L’uomo sedutosi in contemporanea a me ha provato ad attaccare discorso, era ubriaco. Dall’altro lato, l’ altro uomo, faceva apparentemente finta di niente. Io anche ho fatto finta di niente, ma non mi sentivo sicura. Come all’epoca, in discoteca, quando ballavo, stanca morta, eppure sentivo qualcosa nell’aria che non tornava. L’uomo ubriaco ha deciso di lasciar stare, che non volevo conversare e si è letteralmente accasciato sulla sua sedia. Poi, è stato un attimo, ho visto con la coda dell’occhio che ha alzato la mano per accarezzare i capelli della donna seduta davanti a lui. La donna si è voltata e io sono scattata e mi sono portata avanti sull’autobus verso l’uscita. L’altro uomo mi ha detto di no, che dovevo stare lì, seduta, come a fare intendere che mi avrebbe difesa lui, se l’ubriaco allungava le mani. Col cazzo, fratello, mi fido più di me. E infatti: raggiungo la porta centrale, tempo dieci secondi e sento che, in fondo all’autobus, l’uomo dice alle donne di sedersi tranquillamente e poi inizia ad inveire contro l’ubriaco, dice che ha già dato fastidio a due donne, che ci pensa lui, che forse gli vuole dare una lezione. Tensione conclamata. Pensa se rimanevo al centro dei due… Si apre la porta centrale, scendo al volo, è meglio. Non so come è andata a finire, probabilmente in niente, ma so come vanno queste cose, cioè che non sono prevedibili a priori dal momento della tensione conclamata. Magari succede che hai una manciata di secondi, scatta la zuffa e ci finisci in mezzo. Morale: voglio dire alle ragazze di fiutare l’aria, che se il loro sesto senso le sconsiglia di rimanere in un posto, locale o autobus che sia, se ne devono andare, devono mettere in atto da sole la così detta “prima difesa”. Non dovete rimanere immobili per paura, per timore di offendere qualcuno, per vergogna. Togliete le tende, veloci. Perché, tempo dieci secondi, non lo potete sapere come va a finire. Ah, un grazie d’obbligo ai locali “accesi” che ho frequentato dove ho imparato a fiutare l’aria e a non avere paura di andarmene.

Ti sembrano cose umane, intendo queste qui, che succedono tra le persone, ti sembrano cose umane?

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settembre 13th, 2010 Posted 20:24

«Ho deciso di avere un seno più piccolo – ha dichiarato alle tv americane – molto più piccolo. Una taglia normale, come quello di una casalinga». Parole di Sheyla Hershey, lette qualche giorno fa su libero.it. Guardati il sito della signora, poi ne parliamo. Anche della questione della casalinga.

Ora dobbiamo volare a Sydney dove un circo russo in tour in Australia ha dovuto cancellare il numero in cui una donna ingoia tre pesci rossi vivi e poi li rigurgita. Il pubblico non ha gradito e lo Stato del Nuovo Galles ha così deciso: viola la legge sulla protezione degli animali. Sai, stanotte ho sognato un vecchio giornalista che mi diceva di un servizio che avrei dovuto fare a Bologna. Io ho subito pensato a quel tizio che aveva vinto 6 milioni di euro all’enalotto (inesistente, ovviamente) pur avendo la sensazione di dover investigare su un omicidio. Ho rifiutato, in ogni caso, e dato che la linea telefonica era disturbata, non ho nemmeno ben capito per quale servizio giornalistico esattamente volesse reclutarmi. Il vecchio giornalista mi ha salutata (il suo ciao l’ho sentito forte e chiaro) augurandomi tanta fortuna ed erano le 9, lo guardavo sull’orologio del monolocale dove vivo, Interno 6. Ho chiamato il taxi e Jack era semi-sveglio a letto, come al solito. O forse, vista l’ora, era già al fornello a versarsi il caffè caldo. Sotto alla telefonata del giornalista avevo un’altra chiamata. Era Dory, la segretaria di un tizio per cui avevo lavorato poco e male, a causa del tizio ovviamente, ma sul display appariva Doy. Perché chiamava alle 9? Io alle nove devo essere in ufficio – ho pensato – altrimenti non faccio in tempo a rispondere. Ma ti voglio raccontare di Londra: una madre sulla quarantina ha urlato il nome di un altro uomo mentre scopava con la nuova fiamma che l’ha accoltellata e strangolata col cavo della sveglia. Se ci fosse stato “Il predestinato” dalle sue parti, forse si sarebbe salvata. Hai capito a cosa mi riferisco? E soprattutto, ti sembrano cose umane, intendo queste qui, che succedono tra le persone, ti sembrano cose umane?

Del fatto che a Natale si celebrerà a Madrid la prima lotteria gay, invece, non mi frega niente. L’unica cosa che mi aggrada, solo per questo ti ho raccontato la notizia, è la scritta stampata sui biglietti: “Gay Luck”. La trovo piuttosto musicale. Sai, se proprio te lo devo dire, mi piacerebbe davvero essere altrove, in quell’ altrove esatto che ricerco attraverso le notizie del mondo. E le più belle sono sempre di Parigi. Senti questa, l’ho letta su City: un professore di liceo cambia sesso durante le vacanze estive. In pratica, suona l’ultima campanella prima delle vacanze ed è Vincent, risuona la campanella qualche mese più tardi ed è Martine. Et voilà. Pare che i ragazzi (dai, nel senso di discenti, cosa vai a pensare!) l’abbiano presa bene. Allora le cose stanno più o meno così: non mi va di ascoltare il telegiornale perché poi finisce che mi ritrovo a subire qualche discorso leghista, o il racconto di qualche presunto caso di malasanità, oppure imparo che esistono al mondo stronzate quali il balconing. Insomma, per un motivo o per un altro mi incazzo sempre. Non mi rimane che guardare i reality. Senti, ora devo proprio andare anche se non ne ho voglia, anche se starei qui a raccontarti per ore. Torno presto.

LUI HA QUALCOSA DA DIRE. MA DEVE FARLO NEI TEMPI E NEI MODI DI UN “TRITATUTTO”. CORAGGIO NEVRUZ!

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settembre 8th, 2010 Posted 12:51

Lettera da naufrago a naufraga(r)…

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settembre 3rd, 2010 Posted 20:02

Un marinaio pensa, su uno scoglio in riva al mare, ad un antico amor perduto…

"Lo scoglio" - foto di Silvia Castellani

Chissà dove sei, cosa fai, se mi pensi mai. Ora io qui ti penso, sì, e ripercorro quei giorni lontani e così inutili, dove ancora per noi tutto era possibile. Ora le cose sono cambiate, si sono evolute, si sono staccate da un guscio scintillante in cui noi soli abbiamo finito per credere. E in due non si può vincere un oceano di ostilità. Adesso io cerco sempre, come allora, cosa non so. Sempre in mare la mia anima di tempesta anche quando le acque appaiono calme. Sono lo stesso. Forse anche tu. Dovrei cambiare. Potrei? Non sarà il viaggiare o l’associarmi con gente straniera a darmi la pace. Non sarà nemmeno la fede, temo, perché sono troppo carnale e sofferente per farmi una ragione del bene. Esiste sulla terra questo bene? Esiste per certo, dentro di me, ma portarlo fuori, fare sì che l’Altro possa riconoscerlo, lo trovo ormai impossibile. I porti dove approdare sono tanti, ma ho perso la convinzione di potercela fare. Una volta era diverso. Una volta il segno avverso non aveva orecchie per me. Ora arranco, rido a stento e mi chiedo se la mia vita ha un senso. Ora non c’entra l’aver sofferto, la scoperta dell’abbandono, il perdono dato da un trono. Ora credo di essere solo, nonostante il mondo mi sorrida tutto. Ora penso al lutto che non ho mai accettato, quello di un addio che non doveva essere dato. Oggi è ingrato con questo mio fato che da un lato spinge ribelle per uscire a rivedere le stelle, dall’altro stantio non si riesce a prendere.

E così mi consolo, guardo il mare aperto, tu pure guardalo, come brilla, luccica di argento su questo scoglio dove sono naufragato. Non tentarmi più con il tuo ricordo, che pure mi riempie il cuore e non venire a visitarmi in sogno. Le illusioni nell’afferrare il tempo perduto non potranno riportarci in salvo e rimettere insieme i nostri pezzi illesi. Cerca, piuttosto, di essere felice.

Siamo un gruppo, notizie dal mondo e un ufficio di collocamento di notte (2° parte)

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agosto 27th, 2010 Posted 20:15

Devo andare, diceva lei, o forse lo pensava solo…. Io devo rispondere a quel telefono, si ripeteva nella mente. E invece niente, nel sogno ha lasciato tutto lì, il suo capo, il telefono, la fila di gente. E’ andata con lui com’era logico, come era possibile, l’unica scelta giusta. Hanno parlato seduti in quel bar, lei forse un po’ troppo timida rispetto alla realtà, e c’era un’amica di lui seduta al tavolo che raccontava « vedi ora esce con un’altra, una mia amica, ma emozioni come con te non le ha più provate. E’ una questione d’intensità ». Ma quella non era la fidanzata prima, quella dopo di me, ragiona lei che sogna, e perché parla di quella venuta dopo senza nessun coinvolgimento? Lui in tutto questo parlare e pensare altrui, tace, la guarda soltanto, lei pensa anch’io. Poi fa per tornare al lavoro, ma sale su un ascensore da sola, vuole salirci lei da sola che c’è poco spazio e ha bisogno di concentrazione. E’ ancora innamorata, anche se ha fatto di tutto per toglierselo dalla mente. Così torna indietro e lui è ancora lì, al bar al piano terra, l’ufficio di collocamento in alto che collochi qualcun altro. Lei vuole solo perdersi, rimanere senza un posto, sciolta tra le braccia di lui. Quelle labbra le conosce bene, solo ieri sera in tv le ha viste addosso a uno e ha pensato « sono quelle di lui », e ancora i capelli, gli occhi, il naso, è tutto perfetto, così familiare. Se il tradimento fosse reale, pensa nel sogno, lo farebbe lo stesso. E’ stanca del gelo della sua vita, della coltre bianca che le copre l’anima e la anestetizza. La sveglia è suonata, suo marito si è alzato nel cuore della notte ed è andato a lavorare. Fa il camionista e oggi deve partire per un viaggio lungo. Va verso nord. Lei l’ha salutato come fa di solito, con un bacio e un buon lavoro, poi appena lui ha chiuso la porta, ha chiamato l’uomo del sogno, quello con la maglietta rossa. Lui ha risposto al telefono, ha detto solo “sei tu,” dopo anni che non si sentivano. Lui sapeva che lei sarebbe tornata e l’ha aspettata con pazienza. Non riuscivano a dirsi, il come e il cosa,  e così hanno deciso di incontrarsi subito, nella notte, per passeggiare sotto la neve. Il viale è quello alberato, quello con i lampioni alti, quello con gli alberi immensi. Loro visti dall’alto paiono una cartolina d’altri tempi e si baciano. Alle prime luci, lui la riaccompagna a casa con una promessa. Lei non dice niente, sorride e bastafirma_silvia_1.

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agosto 27th, 2010 Posted 19:48

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