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Silvia Castellani

Tra l'essere e il fare, c'è di mezzo il pensare

Archive for the ‘Senza categoria’ Category

La mia casa è la Vostra casa. Buon Natale 2010

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dicembre 23rd, 2010 Posted 18:32

AUGURI NATALE 2

L’amore rivoluzionario di ANNARITA ALVIANI

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dicembre 22nd, 2010 Posted 10:22

Una breve premessa mi pare doverosa, non foss’altro per l’”importanza” del pezzo che segue, che non rispetta i canonici tempi da blog, in particolare di questo blog, dove la lettura non occupa solitamente più di dieci minuti. Allora, come mai Annarita Alviani con tutte le sue parole è qui? E’ qui perché l’ho invitata io. L’ho invitata ancora prima di avere letto il suo scritto, nella consapevolezza del fatto che siamo donne diverse, con pensieri diversi, che non di rado discutono dalle loro diverse posizioni. Annarita ed io possiamo essere, come un amico ci ha molto opportunamente suggerito nell’ambito di un simpatico diverbio facebookiano, avversarie, mai nemiche. Perciò, sulla fiducia, sulla stima e nella convinzione che tra i diritti fondamendali dell’uomo ci sia il diritto alla “testimonianza” personale, ecco il libero contributo, su questo libero blog, di Annarita Alviani, che ringrazio di cuore per essere qui, riempiendomi di stima perché sono convinta che la diversità tra donne che nonostante la stessa collaborano e si rispettano sia, ad oggi, un significativo atto rivoluzionario. Per chi ha tempo, per chi ha voglia, per chi crede che sia importante ascoltare l’Altro.


Guardò l’orologio quasi di nascosto e si rese conto che doveva andare, si era fatto tardi. Non poteva restare oltre. Succedeva sempre così, che sul più bello doveva andare via, lasciando sempre le cose a metà; non riusciva mai ad arrivare alla fine di niente, ma non poteva stare fuori oltre una certa ora. Senza salutare, si alzò e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Si ritrovò per strada; doveva decidere subito se passare nelle vie interne, o imboccare la via che si ricongiungeva al corso principale della città. Dove avrebbe dato meno nell’occhio? A quell’ora del sabato sicuramente avrebbe incontrato tanta gente, ma poteva essere andata al cinema. Da sola? Mah! Poteva aver lasciato delle amiche… Si avviò per la via principale, non da quella che passava per l’interno: viuzze e scale dove, ad eventuali incontri di amici dei suoi, sarebbe stato più difficile dare una giustificazione. Certamente le avrebbero chiesto cosa ci facesse a quell’ora lì e lei che cosa avrebbe risposto? Avrebbe balbettato risposte incoerenti, facendosi rossa, e tutto questo sarebbe stato riferito ai suoi non appena quel “fantomatico” incontro ne avesse avuto l’occasione.

Si avviò per la strada che portava al Corso. Avrebbe dato un’occhiata alle vetrine e, nel frattempo, avrebbe guardato le locandine dei cinema per prepararsi alle domande dei suoi. Diligentemente leggeva sempre tutte le trame dei film che davano e anche le recensioni. Qualche volta andava a vedere il film, molti se li faceva raccontare. Con la testa un po’ per aria, guardando un po’ il passeggio serale e un po’ pensando a quanto fosse stata interessante quella riunione.

Ma come era possibile che i suoi non capissero che non facevano altro che preparare l’avvento di una società migliore? Si discuteva di tutto e su tutto. Lei imparava tante cose, certo non aveva un ruolo di primo piano: quello era riservato ai maschi che davano le linee guida, che preparavano manifestazioni e assemblee nelle scuole, che tenevano i “ collettivi quadri” dove, appunto, venivano formati i “quadri”.

Quella sera C. aveva tenuto una lezione sul XXIV capitolo del Capitale. Una roba difficilissima: lei di Marx aveva letto il Manifesto, ma aveva letto anche il libretto rosso di Mao e le tesi di Bakunin, oltre a leggere le riviste che arrivavano al Movimento e qualche scritto di Stalin.

La maggior parte delle ragazze, tranne un paio, ma quelle erano le donne dei capi, non avevano mai tenuto un “collettivo quadri”: stavano lì a scrivere tazebao, a ciclostilare i volantini che sarebbero stati distribuiti nei giorni seguenti, scritti dai membri della segreteria.

Si stava anche iniziando a preparare la grande manifestazione degli studenti medi, collegata a quella degli universitari. Era necessario indire assemblee nelle scuole e costituire delle commissioni. Lei avrebbe voluto essere scelta, però il timore delle conseguenze a casa la sopraffaceva: i suoi minacciavano di non mandarla più a scuola, se avesse continuato a frequentare quella gentaccia. La sua vita era difficile, sempre sotterfugi, sempre bugie, sempre con il cuore in gola, ogni volta che rimetteva piede dentro casa si sentiva soffocare.

L’atmosfera era plumbea, il padre sempre torvo e la madre le puntava uno sguardo accusatore, facendola sentire responsabile anche dei litigi che lei e il marito facevano. Tutto per colpa sua. Erano arrivati a farle un processo. Un vero e proprio processo, dove però lei non aveva nessun avvocato difensore: un’intera famiglia che le puntava il dito contro: zii, zie. Tutti a dirle che era una scellerata, lei aveva cercato una parola dalle cugine, ma quelle non parlavano e del resto avevano anche loro dei bei problemi e, se avessero detto anche solo mezza parola in suo favore, sicuramente gli si sarebbe ritorta contro. Aveva affrontato quella corte marziale a testa alta, ma con un ’ansia che le attorcigliava lo stomaco ed anche il cervello. Aveva cercato di difendersi esponendo le sue idee… Non capiva, non poteva far sì che le sue idee si realizzassero: in fondo cosa chiedevano? Chiedevano salari più equi, chiedevano il diritto ad uno studio che non fosse nozionistico, chiedevano di essere rispettati come studenti, volevano che finisse la guerra nel Vietnam, volevano che il Cile tornasse  libero e non un satellite degli USA, volevano case e lavoro per tutti, volevano che le università non stessero più in mano ai baroni, volevano una rivoluzione culturale come quella cinese. Bisognava prendere a modello la grande Cina, dove donne e uomini erano considerati eguali e dove tutti lavoravano e mangiavano: e gli intellettuali erano contadini e i contadini erano intellettuali, in uno  scambio di ruoli che era  molto proficuo per il paese e, soprattutto,dove le donne erano considerate l’altra metà del cielo.

Un profluvio di improperi le si era rovesciato addosso: sarebbe stata la colpevole del trasferimento in Sardegna di suo padre. Lei, la rovina della famiglia, aveva iniziato a piangere singhiozzando talmente forte che si sentiva soffocare: nessuna indulgenza, o la smetteva o l’avrebbero tolta dalla scuola. Questa minaccia le pendeva sul capo e lei promise: promise che non sarebbe più andata lì: alla sede. Promise che non avrebbe più incontrato nessuno dei “compagni”, tanto come faceva a incontrarli se neanche la facevano uscire per andare sul viale dove stavano tutti, dove si incontravano per stare insieme e dove c’era anche lui, che le piaceva tanto, ma che neanche la guardava? Invece, poi, non aveva mantenuto le sue promesse e rischiava ogni giorno botte e ritiro dalla scuola.

Intanto, con questi pensieri nella testa era arrivata davanti alla piccola chiesa. Si sentì chiamare: erano due amiche di sua madre, due colleghe; salutò educatamente, ma affrettò il passo, facendo finta di interessarsi alla vetrina della ferramenta e, proprio lì, vicino alla vetrina, vide due ragazzi abbracciati sul portone. Guardò fisso perché aveva riconosciuto lui e, certo, era proprio lui, e quella spilungona era la sua fidanzata. Sentì il cuore rombarle nel petto e poi improvvisamente come se si fosse fermato. Il sangue le defluì dal viso e le gambe le tremavano. Forse aveva fermato lo guardo su di loro un minuto più del dovuto, perché lui si voltò a guardarla. Abbassò il viso e continuò a camminare, lo sapeva che stavano insieme, li aveva visti tante volte, ma il dolore di quella sera era stato feroce.

Arrivò a casa trafelata e la madre non le disse nulla, non l’accolse con la solita gragnuola di domande, la guardò inquisitoria come al solito, ma non disse nulla. Strano questo silenzio, pensò. Non si era però resa conto di avere il viso stravolto: lo vide solo dopo quando andò in bagno per lavarsi le mani e si guardò allo specchio: era bianca  come un cencio, gli occhi spenti. Chissà cosa aveva pensato sua madre. La cena si svolse nel più assoluto silenzio e lei se ne andò a dormire.

La mattina dopo a scuola ci sarebbe stata l’assemblea e a lei avevano dato il compito di fare un intervento, finalmente, lo doveva preparare, l’avrebbe fatto la mattina dopo: adesso proprio non poteva,sentiva troppo male dentro.

L’assemblea andò benissimo, in tanti avrebbero partecipato allo sciopero, il suo intervento fu mediamente applaudito. Bene, per lo meno non si era impappinata. La prossima volta, forse, l’avrebbe tenuta lei l’assemblea. Adesso era andata meglio così. Un intervento passa inosservato, la preside mica poteva segnalare tutti quelli che intervenivano. Certo, tenere un’assemblea sarebbe stata la conferma  di un riconoscimento come vera compagna. Ma come si passa dalla scrittura dei tatzebao al rango di “oratore”, da angelo del ciclostile a capo di commissioni? A quadro? Si impegnava a partecipare a tutte le riunioni, e cercava di farsi un’opinione di ogni avvenimento che veniva discusso; era molto silenziosa quando si trattavano grandi argomenti, del resto stava soltanto allora leggendo i classici del marxismo leninismo. Alcune compagne, due tre erano a capo di commissioni, e avevano anche tenuto dei “collettivi quadri” qualcuna più piccola di età di lei, che strano. Lei era sempre un membro. Forse perché erano le donne dei capi. Erano molto più agguerrite di lei, ma loro non avevano il problema di sovraesposizione..

Molti in sede la guardavano tra la commiserazione e il sarcasmo, lei non batteva ciglio. Non voleva impietosire nessuno e se non la ritenevano all’altezza, non avrebbe elemosinato  nulla.

Quando morì  Roberto Franceschi si trovò la mattina a dover distribuire i volantini preparati durante la notte e non si tirò indietro anche se aveva la certezza matematica che sarebbe arrivata la polizia. Roberto Franceschi era stato ferito gravemente da un colpo di pistola di un poliziotto, perciò sapeva bene che qualsiasi cosa fosse stata fatta, la polizia sarebbe intervenuta. Quella mattina sapeva a cosa andava incontro: rischiava  di vedersi comparire suo padre davanti e, con le gambe che le tremavano, distribuì i volantini sullo scalone del liceo.

La salvò l’interrogazione di greco. Un suo compagno di classe prese il suo posto, perché altrimenti quel giorno, se non si fosse presentata, sarebbe toccato ad un altro e nessuno era preparato.

Arrivò la polizia proprio nel momento in cui lei si accingeva a varcare il portone del Liceo. Il padre aveva la faccia nera e gli occhi che mandavano lampi. Capì dallo sguardo che a casa sarebbe successo il finimondo, ma lei era innocente! Portarono i suoi compagni in questura perché imputati di diffusione di notizie false e tendenziose e di violazioni di leggi sulla stampa, perchè Roberto Franceschi ancora non era morto e perchè non avevano scritto “cicl. in prop.” sui volantini…

Quel pomeriggio non si azzardò ad uscire di casa, le aveva prese e aveva un occhio pesto perché per sfuggire a suo padre aveva battuto contro lo spigolo di una porta. Le telefonarono per sapere se potesse partecipare ad una riunione straordinaria, ma come poteva fare? Suo padre se soltanto avesse chiesto di uscire, l’avrebbe ammazzata di botte. Certo era strano, le aveva telefonato Giuseppe, un ragazzo che da poco frequentava la sede e che non era studente: lavorava ad una pompa di benzina. Ma non era quello il problema, il problema era salvarsi da altre botte e disse che Giuseppe stava in prima A e voleva le sue traduzioni dei classici. Difficile che sua madre l’avesse bevuta, però…….

Non pensò più a Giuseppe, neanche ne ricordava il viso, quando un paio di giorni dopo se lo trovò davanti la scuola e volle per forza accompagnarla e le chiese di uscire il pomeriggio. Trasecolò.. balbettò una scusa, quello insisteva e lei allora gli disse apertamente che non voleva uscire con lui. Non le piaceva. Le piaceva un altro ragazzo. Non immaginava certo cosa si sarebbe scatenato: fu accusata di essere una borghese reazionaria! Il suo rifiuto era stato riferito, dall’innamorato deluso, ai membri del direttivo che non appena rimise piede in sede la sottoposero a un vero e proprio interrogatorio: perché non voleva fidanzarsi con Giuseppe? Cosa non aveva che andava per lei? Era troppo superba per rifiutare così un compagno operaio! Ecco cos’era che non andava. Lo sapevano bene che lei preferiva quelli che stavano dall’altra parte del viale, era una borghese.

Non era una vera compagna. Forse avrebbero preso delle misure di sicurezza contro di lei. Tutti i capi avevano le donne all’interno del gruppo, nessuno di loro stava con ragazze “esterne” e tutte le donne dei capi avevano ruoli importanti. C’erano stati dei problemi perché uno di loro aveva chiesto a qualcuna prestazioni, senza esserne il fidanzato, in un momento di solitudine. E se in un primo tempo le era parso che tutti avessero preso le parti della “compagna”,  mettendo in quarantena il “compagno”, li aveva poi sentiti dileggiarla e ridere di lei  e dei suoi comportamenti “antirivoluzionari” e borghesi, perché si era andata a lamentare, forse da un altro del direttivo. I compagni vanno comunque aiutati!

L’intera questione aveva assunto ai suoi occhi tutto un altro aspetto: non le andava proprio a genio quello che sentiva! Le loro “donne” fecero altrettanto e la poverina si ritrovò compatita, anche se tutti le sorridevano.

E da lei mandarono un emissario per convincerla ad accettare Giuseppe: ritenevano la compagna molto persuasiva, in effetti aveva un fare dolce ma insinuante, non le stava granché simpatica, sempre troppo sorridente e troppo accondiscendente rispetto a tutto quello che dicevano gli altri e le disse che una persona intelligente come lei non poteva rifiutare il compagno operaio Giuseppe! Il suo fidanzamento con lui sarebbe stato “rivoluzionario” e lei finalmente sarebbe stata considerata una vera compagna. Tutti si interessavano al suo fidanzamento perché la vera rivoluzione incominciava proprio da lì, dalla sfera personale. I veri rivoluzionari non separano il personale dal politico, ma ne fanno un unicum!

Non poteva proprio, lui era basso, aveva le unghie sporche, tutte nere di grasso, e i capelli unti; un odore acre di sudore e non sapeva neanche parlare bene, farfugliava e non sapeva dire due parole in italiano corretto. Non voleva neanche parlargli, figuriamoci pensare a baciarlo! E poi, diamine, faceva il benzinaio e di che avrebbero parlato, del prezzo della benzina? Non se ne poteva fare niente. “Giuseppe si trovi un’altra!”

Se ne andò decisa a mantenere la posizione “personale”, strettamente personale .

Certo la vita nei giorni seguenti fu difficilissima, sentiva l’ostilità dentro casa, fuori casa, e iniziò a provare una sorta di avversione per  tutti. Uno che forse faceva da portavoce, un pomeriggio incontrandola mentre tornava da scuola, le disse che Giuseppe era una grande opportunità per mostrare quanto fosse veramente comunista e che non poteva ambire a nessun altro, perché non dava segno di essere una vera rivoluzionaria. Forse dopo, se lei si fosse fidanzata con Giuseppe, sarebbe cambiata la posizione nei suoi confronti e magari qualcuno dei capi avrebbe anche potuto pensare di fidanzarsi con lei. Anche se non era proprio alla loro altezza! Lei se ne ebbe a male, ma non recedette dalla sua posizione e fece benissimo, perchè di lì a qualche tempo arrestarono Giuseppe per rapina a mano armata!

Per fortuna che la scuola stava finendo e lei se ne sarebbe andata con le cugine al mare. Aveva bisogno di libertà, di andare a ballare, aveva bisogno di parlare di ragazzi, di vestiti, di film, di leggere altro da Lenin o Marx, Pekin Information  e la rivista trimestrale; voleva leggere le poesie, voleva leggere Emily Dickinson, Jane Auste, Thomas Mann il suo amato Balzac; voleva ascoltare De Andrè e Battisti e i Beatles e i Rolling Stones, e non più le canzoni di lotta, non voleva più leggere, voleva vedere i film per davvero e non leggerne soltanto le trame..Con i compagni e le compagne della sede non si parlava mai del resto del mondo, tutto era considerato borghese, dicevano che la cultura del novecento non aveva prodotto nulla, che Battisti era fascista, voleva parlare di ragazzi e voleva cercare di dimenticare lui, quello che neanche la guardava, voleva fare in modo che la guardasse e si sarebbe comperata le gonne corte, i trucchi e le scarpe con il tacco.



"Annarita Alviani, profilo"

Il semaforo verde

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dicembre 18th, 2010 Posted 10:32

Dal mio Facebook al mio blog…

Lettere a Milena

17/12/2010, venerdì, Bologna.

Non basta uno stato, serve una nota per questo episodio capitatomi mezz’ora fa, circa.

Ero ad un incrocio, dovevo attraversare e il semaforo era rosso.

Mi sono avvicinata ad un banchetto di vecchi libri, accanto all’incrocio, in attesa di attraversare. Se il semaforo è rosso, ho pensato, meglio aspettare vicino a quei vecchi libri piuttosto che ai margini della strada.

L’uomo del banchetto mi guarda guardare e mi incoraggia a guardare meglio i suoi libri.

Io rispondo che devo attraversare, ma il semaforo è rosso, per questo mi sono avvicinata.

Lui non dice niente. Sono attratta da un libro che nel titolo porta la parola immagine. Non lo tocco, non lo prendo nelle mani, è freddo e mi fermo poco. Il tempo di un semaforo rosso.

L’uomo non dice niente, guarda me che guardo “IMMAGINE”.

Poi lui guarda il semaforo e scatta il verde. Io non mi muovo perché la mia testa ha iniziato a pensare ad una immagine…

Mi dico che ci sarà un altro verde. E allora attraverserò.

Le piace Kafka?

Dico sì.

Allora prenda questo libro, glielo regalo, è un po’ rovinato…

Allungo la mano e prendo “Lettere a Milena”. E’ della stessa stessa collana di un altro vecchio libro che comprai ad un mercatino a Roma, “La linea d’ombra” di Conrad.

Dico solo: grazie e Buon Natale.

L’uomo non dice niente, sorride.

E’ ancora verde.

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Per conquistare il mondo serve un esercito molto disciplinato (!) di carinissimi tirapiedi

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dicembre 17th, 2010 Posted 12:04

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All’ombra dell’onda di Beatrice Impronta

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dicembre 4th, 2010 Posted 11:36

All’ombra dell’onda
mi ritroverai

Ad aspettare il mio amore
partito con te

Ad aspettare l’amore che mi hai portato via
L’amore che ti apparteneva
come la vita tua
come la vita mia

All’ombra dell’onda
mi ritroverai

Con il tuo corpo disegnato addosso
ed un mare di sogni che mi bagna la pelle

Arsa da un sole ormai senza ombra e senza dubbi….

"Ritratto d'edificio fiorenzuolese" - Foto di "Bio"

Parole di Beatrice Impronta

Foto di Fa”Bio” Baratto

Vieni via con me, nel senso di: resta qui

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novembre 25th, 2010 Posted 12:32

Aspettando Godot

Resto qui perché è più facile e ormai non sono più giovane. A trent’anni non sei più giovane, nonostante sia in voga un malcostume per cui a 60 anni dalle mie parti ti chiamano ancora ragazzo. Le mie parti sono l’Italia e l’eterno ragazzo è uno solo e si chiama Gianni Morandi. Vorrei andare via perché non muore mai in me la speranza di poter trovare altrove un El Dorado. Ma resto qui perché la mia buona esperienza, che è divenuta coscienza, mi consiglia che Godot, a conti fatti, è qui dove sono ora. Resto anche per gli affetti e i sentimenti e credo che, in fondo, siano sempre quelli ad avere la ragione. Vorrei andare via perché troppi intorno a me sono sempre pronti a lamentarsi, ma pochi hanno il coraggio di cambiare le cose che non vanno. Spero un giorno di essere uno di questi ultimi. Dico uno e non una, anche se sono una donna, perché fatico ad accettare il concetto di genere. Sento parlare spesso di problemi e lotte di genere. Scusa, di che genere? E’ una battuta infelice, lo so, ma vuole essere una provocazione forte perché fatta in una giornata particolare, quella internazionale contro la violenza sulle donne. Vuole essere soprattutto di buon aspicio a questo: pensare tutti sopra ad ogni genere, ad ogni parte; pensare anzi sentire in termini di persone. E’ utopia? Resto qui non perché mi accontento. E’ sbagliato accontentarsi. Poi finisce che ti affezioni alla miseria delle cose. Resto qui perché ci sono delle persone, quelle di prima, che mi danno la forza di opporre “Resistenza”. Vorrei andare via io? No, più lo scrivo per ipotizzarlo, più mi attacco a questo presente qui, in questo Paese che non è pizza, mafia e mandolino. Quella è un’immagine sfuocata, una percezione distorta che ha fatto non si sa come il giro del mondo, perché a fare il giro del mondo sono le voci che vogliamo che facciano il giro del mondo. Dobbiamo cambiare le voci, diffondere parole nuove. E questo, in realtà, non è un elenco, e nemmeno un volere trovare ragioni per andarsene o rimanere. Questo è un atto d’amore per un Paese che non è né bello né brutto. E’ un Paese che forse ancora non c’è. E che perciò bisogna costruire. Ma prima, però, lo dobbiamo immaginare. E siccome sono donna, giovane e amo le sfide difficili, resto qui.

Divorare evanescente di Andrea Urbani

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novembre 13th, 2010 Posted 12:25

Bianconiglio

In un giorno di pioggia di fine agosto parte un andare in presa diretta, una specie di “stream of consciousness” per dirla con Joyce, ma con più punteggiatura………………………………………………………………………………………………….

Intravedo davanti a me la sagoma sfuggevole, evanescente, quasi eterea del bianconiglio…ha appena riposto nella tasca l’orologio e saltella veloce su di un tappeto di fiori ed erba, diretto verso una siepe lontana…di colpo scompare inghiottito dalla bocca spalancata della sua tana…lo inseguo rapito senza domandarmi se è realtà o fantasia…ma i profumi dei fiori sono veri nella mia mente, ed anche la siepe di rovi e more mature che avvicino a grandi balzi lo è…e pure la giacca di tweed che indossava il coniglio bianco con gli occhi rosa era di taglio raffinato e di classe…perché dubitare dei miei occhi e della mia mente? Giunto vicino alla tana, intravedo una porta blu nella siepe, invitante, suadente, tranquillizzante…ma gli occhi mi corrono al buco oscuro che diffonde un bagliore rosso sangue…la terra smossa attorno pare un soffice guano (”dal letame nascono i fior” scrisse un poeta che non c’è più, ma che resterà per sempre immortale) e lo sfintere da cui è stata generata, invece di rappresentare una nera cloaca, spande odori/imuforp invitanti…le stesse orme di piedi (zampe?) dell’animale (animale?) emanano un afrore che dovrebbe deflettere ed invece invita sottile ad essere adorato…un ultimo sguardo al blu della porta e poi giù…giù nell’intestino del pianeta (o è la bocca??? oppure un altro orifizio???) Mentre l’udito percepisce una voce mielosa ma ferma, giocosa ma decisa, adolescenziale ma imperativa…un salto e le pareti viscide del tunnel mi accolgono, le mani che scivolano e sfiorano il ventre umido, gocce mi bagnano ovunque…acqua che rifluisce o sgorga, lacrime salate, viscosa saliva o acre urina…e libri e mappe e cibi e bevande tutto intorno e una musica negli orecchi (pulsante e ipnotica..”First Snow”…prima neve…in una tana???) Un’ immagine in divisa, una fascia rossa e una Stella di Davide (perchè chi sta ghettizzando i palestinesi a Gaza sono proprio gli stessi che di ghetti furono vittime), una nera maschera lucida, cosce intraviste a breve…morbide e turgide…pensieri e immagini sempre più voraci…fino a una soffice caduta su un mucchio di…foglie? merda? indumenti intimi guarniti di pizzi e ricami di fiori? Non lo so ancora questo…non lo so…ancora…

Alice di carta

Non intendo perdere il bianconiglio…perciò proseguo al suo inseguimento…per vedere quanto è profonda la sua tana…fino a una soffice caduta su un mucchio di…sangue…sono atterrato nel sangue…sangue di chi in questa caduta a capofitto in un mondo dove nulla è come sembra, cercava invece i sicuri appigli del suo essere stato “allevato in società”…cercava porte blu che qui non ci sono…il sangue mi invischia, è umido, caldo in superficie, rappreso ed orribilmente gelatinoso sotto il primo strato…è sangue arterioso e venale, mestruale e animale…osservo le mie mani vermiglie, vorrei quasi assaggiare quella che sembra una marmellata di amarene, colata da un barattolo fatto di carni ed ossa…ma un rumore mi distoglie lo sguardo…lo vedo…lungo il corridoio…giacca di tweed e zampette pelose vagamente caprine…”ho fatto tardi, tardi, tardi” e via sparisce, scartando di lato come un cavallo scosso al Palio…corro più che posso, oltrepasso porte chiuse…nessuna si apre…ho quasi la sensazione di sentire una risata beffarda e felina da dietro di esse…giungo infine ad un piccolo tavolino traslucido su tre zampe…sopra di esso una piccola chiave…sembra la chiave che chiude un collare…oppure manette di cuoio…un piccolo drappo viola ondula mosso da un vento che non c’è…mi avvicino…adrenalina a mille…sento il cuore che pompa e una sensazione vibrante mi percorre il corpo fino ai genitali…scosto il drappo…cosa troverò al di là?

Alice e la chiave

Uno specchio…dietro al drappo c’è uno specchio. Lo osservo…mi vedo riflesso per la prima volta da quando questo inseguimento è iniziato…gli abiti che indosso sono lordi di fango e grumi rossicci, ho i piedi scalzi, il viso sporco e irriconoscibile, lo sguardo è un misto di curiosità e stupore emotivo. Rifletto di fronte al mio corpo riflesso…mi trovo nell’utero umido della terra, tornato feto, coperto di sangue, dopo avere inseguito un coniglio con la giacca e l’orologio da tasca…con la coda dell’occhio colgo un movimento improvviso…NON SONO SOLO…tutti i peli del mio corpo si rizzano contemporaneamente, mentre un brivido mi scuote la spina dorsale…una fugace apparizione alle mie spalle…ho intravisto solo una maschera bianchissima, inespressiva…con occhi senza orbite…un sinistro scricchiolio ed il rumore di passi (tacchi?) che si allontanano…mi volto di scatto…una delle porte che credevo chiuse deve essere aperta…ma quale? Il corridoio da cui sono provenuto non è il solo che porta a questa stanza…la stanza è un poligono con un numero incontabile di lati e ad ogni lato si spalanca un corridoio con un numero incontabile di porte…una porta è aperta…si…ma quale???? In quale dei corridoi si trova???? Qual’è il corridoio da cui sono venuto???? Il terrore mi paralizza…la mia sanità mentale vacilla…mi accascio al suolo in preda a spasmi incontrollati raccolto in posizione fetale…non voglio chiudere gli occhi…non ora…ora tutto è silenzio…assoluto, totale…tombale. Il mio udito si attiva alla ricerca dei rumori mentre lo sguardo ruota tutt’intorno osservando i corridoi…uso le mani per risollevarmi e le dita sfiorano un oggetto sul pavimento…la chiave… Guardo per la prima volta con attenzione la chiave…è piccola, quasi scompare nella mia mano…non sembra adatta per aprire la serratura di una porta…è appiccicosa…l’odore ricorda qualcosa di commestibile…mentre la tengo nel palmo e la osservo…mi cade…ma non sento il tonfo sordo sul pavimento…bensì un tintinnio cristallino…il tavolino…la chiave è sopra di esso…ma non c’è soltanto quella…ora c’è anche un cappuccio nero e un biglietto vergato a mano posato su di esso…l’inchiostro è fresco…rosso vermiglio…anche il biglietto è appiccicoso…ed emana lo stesso aroma della chiave…c’è scritto soltanto “indossalo”…il cappuccio è di pelle nera, con alcune borchie e fibbie, un apertura per gli occhi con una mascherina che può celarli, ora sollevata, e una per la bocca…non penso di avere alternative…indosso il copricapo…all’interno nuovamente il profumo del biglietto e della chiave…il contatto diretto con il naso mi fa capire infine di che si tratta…prugne secche…una risata oscena mi sorprende alle spalle…lo specchio improvvisamente si spalanca e rivela dietro di se una stanza…è una cucina…

Testo di Andrea Urbani

Le immagini sono state prese da internet attraverso google immagini. Se qualcuno le riconoscesse come proprie e non ne volesse l’uso da parte di altri (il che mi pare difficile, trovandosi le stesse in rete, ma comunque la gente è strana, si sa), è pregato di comunicarcelo e le rimuoveremo.

Pezzo di qualcosa, in origine documento 1 di Delfina Solinas

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ottobre 21st, 2010 Posted 12:14

Si era svegliata di soprassalto, era stato il telefono a svegliarla ma non era riuscita a rispondere, o forse aveva solo perso troppo tempo a pensare a cosa dire.
Le girava la testa, aveva fame o solo troppi pensieri sovrapposti, reali o immaginari. Aveva dormito tanto, troppo, dopo tre notti d’insonnia.
Ricordava che l’ultimo pensiero prima di addormentarsi era stato: “devo concentrarmi perché se lo voglio davvero…” E poi i pensieri avevano cominciato ad accavallarsi, a sovrapporsi, come le onde del mare in tempesta, come quando il sonno giunge e non sei più padrone della tua mente. Numeri, lettere, colori, immagini, suoni…un viso familiare, rassicurante, e uno più irreale, dai lineamenti confusi, sfumati, come un’immagine vista una sola volta di cui ci si ricorda l’insieme ma non i particolari…e poi il nulla. Il sonno l’aveva rapita e aveva dormito come un sasso, un sonno lungo, senza sogni.
Eppure qualcuno, tempo prima, le aveva detto che non si poteva dormire senza sognare, che si sognava tutte le notti e poi al mattino il sogno si poteva ricordare o dimenticare. Chiunque fosse stata quella persona, come faceva a saperlo? Erano solo teorie.
Non riuscì a trattenere un sorriso. Si rimise sotto le coperte, ora era sveglia e poteva continuare a concentrarsi.Era successo davvero?
In fondo lei ci credeva, ci aveva sempre creduto fin da piccola, quello era il suo mondo dove tutto poteva succedere, e anche se ora non ne era proprio sicura, continuava a crederlo possibile!
Come quando da bambina giocava con le bambole. Mentre sua sorella inventava delle storie fantastiche, e le bambole erano le interpreti di queste storie, lei passava le ore a pettinarle in silenzio; le storie nascevano e crescevano dentro di lei, nel suo mondo. E le bambole, con un pettine e qualche fermacapelli, potevano diventare principesse o zingare, spose o puttane.
Ora avrebbe voluto con tutta se stessa una bambola da pettinare; le avrebbe sciolto i capelli e glieli avrebbe spazzolati a lungo, lentamente e con dolcezza, poi l’avrebbe adagiata su un letto e l’avrebbe cullata fino a farla addormentare, concentrandosi su quel pensiero…e forse allora, sarebbe successo davvero.

"Delfina e io in una delle nostre infinite conversazioni sul nulla" - Foto di Stanford

Il pezzo è di Delfina Solinas

Nella foto scattata da Maria Alai delle Officine Fotografiche “Stanford”: Delfina e io in una delle nostre conversazioni sul nulla cosmico che ci mandano in pezzi. Di qualcosa.

E mi raccomando, illuminati internauti, prima di lasciare questa pagina, non dimenticatevi di scaricare l’altrettanto illuminante e-book gratuito “Sbatti generation”. Ciao e viva l’ironia:) Siempre.

Cari “amici” vi scrivo, così mi riconcentro un po’

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ottobre 20th, 2010 Posted 17:41

Girando in internet e per Facebook, ho trovato un sacco di critiche riguardanti i reality; in questo momento si attacca più facilmente il Grande Fratello, perché è appena cominciato, poi quando più avanti inizierà l’Isola dei Famosi, quegli stessi che oggi sparano critiche (non costruttive) sul Gf, domani spareranno sull’Isola. Insomma, i suddetti sono in balia totale degli eventi, ma fanno finta di dimenticarselo. Quando si attaccano i reality, io mi sento in dovere di fare delle considerazioni, anche dure. A prescindere dal fatto che a me i reality piacciono, le considerazioni le voglio fare perché non si può fare finta di niente quando si leggono miriadi di cazzate. Intanto mi lasciano molto perplessa quelli che sono solo capaci di appellarsi immancabilmente alla celeberrima “basta spegnere la tv”. D’accordo, spegnete questa maledetta tv, ma il problema non lo risolvete così, perché il messaggio televisivo, nel bene e nel male, non lo blocchi con un pulsante del telecomando. Che questo sia chiaro. Allora, invece di lanciare qua e là degli status – slogan per raccogliere dei consensi inutili, a fini pratici, o lanciarsi in discussioni eterne per concludere: “Ma tanto questa è l’Italia!, come a dire che razza di paese di m….a, io penso sia più utile fare qualcosa. Perché sono i fatti che restano e che provano a cambiare, e a volte ci riescono, le cose. Allora, attenendosi ai reality, ma il discorso vale per tutto, eh! Della serie che se io, per esempio, mi faccio sfruttare con lo stage gratuito sperando poi mi diano il lavoro (vai tranquillo/a che è molto probabile che non te lo danno, preferiscono prendere un altro/a stagista), poi posso pure lamentarmi su Fb, ma se rimango a novanta a subire!!! Sono innocuo. Capito? Innocuo. Allora, torniamo al nostro Grande Fratello. Da quanto leggo: pensate che ci sono sempre i soliti stereotipi, che il Grande Fratello, che è il capostipite dei reality, non vi rappresenta pé nniente (vi ricordate Benigni in Johnny Stecchino? Quello…. quello non mi somiglia pè nniente), pensate che il Gf non dovrebbe nemmeno esistere? E però esiste e lo guardano milioni di persone, guarda un po’. Allora, a prescindere dal fatto che a me piace, ma questo è un altro discorso, ragioniamo nella maniera più obiettiva possibile partendo dal fatto che i reality ci sono in Italia e hanno successo. E non tiratemi fuori l’Inghilterra o altri paesi dove, magari, hanno meno successo. Cazzo, viviamo in Italia, stiamo qui sì o no? Ergo: l’unica alternativa seria è entrare in campo, ché a limitarsi al lamento su internet e sui social network non si conclude niente. Per quanto mi riguarda, come ho detto nel video-provino, penso che siano maturi i tempi perché il Gf possa ospitare personalità diverse da quelle che ci siamo abituati a vedere nelle prime dieci edizioni. Penso che ci stiano alla grande la strafiga, pure quella rifatta, il modello, l’imprenditore ventenne (che quindi lo è al 90 per cento con i soldi di papi), penso che ci stia tutto il caso umano e anche l’arrivista. In fondo, la società è anche questa. Ma non solo questa. E io ci tengo proprio a fare un altro “gioco” senza paura di vedere. Poi come va va, l’importante è mettersi nel gioco, crederci, combattere per un’idea, nel mio caso per la Parola. O no?

Con le mie parole sono pronta a fare i fatti. Sono dell’idea che bisogna adattarsi ai tempi in cui si vive anche per farsi conoscere dal punto di vista letterario. E questi, signori, sono tempi da reality. Tenere le parole nel cassetto è forse più dignitoso che volere scrivere un libro in diretta tv? Non credo; trovo anzi che quest’ultima, che ho chiaramente esplicitato nel mio video-provino sia una bella sfida. Questo per dire che se fossi stata una scrittrice ai tempi di Lorenzo il Magnifico, sarei andata a trovarlo a cavallo con la piuma d’oca e la boccia d’inchiostro sotto al braccio a proporgli la mia opera…

Dal vivo sono meglio. E senza pancia. In questa foto è stato un caso

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ottobre 20th, 2010 Posted 11:29

Il Resto del Carlino - 19 ottobre 2010